È stata una delle più grandi artiste tedesche del XX secolo e la sua recente dipartita ha senza dubbio lasciato un vuoto profondo nel panorama dell’arte contemporanea. Divisa tra Berlino, Parigi e gli States, la carriera artistica di Rebecca Horn è stata una continua esplorazione dell’interazione tra corpo e spazio, sconfinando nei territori della natura e della tecnologia.
Perfino negli ultimi anni di vita ha mantenuto un forte interesse per la diffusione e prosecuzione delle proprie ricerche, come dimostra l’ultima retrospettiva in corso fino al 13 ottobre 2024 alla Haus der Kunst di Monaco. Un’artista davvero poliedrica che ha lasciato un’eredità straordinaria suddivisa tra sculture, installazioni, performance e cortometraggi: tutte opere che risuonano profondamente con le istanze contemporanee.
Achim Thode, Rebecca Horn. Einhorn, 1970 Tirage argentique noir et blanc, 80 x 60 cm Rebecca Horn Workshop © Rebecca Horn ADAGP, Paris 2019
Rebecca Horn, un’opera che ha sfidato le definizioni tradizionali
Il lavoro della Horn ha sfidato le definizioni tradizionali: ha iniziato come artista performativa ad Amburgo, dove nelle sue azioni mixava corpo e scultura, in seguito ha proseguito la carriera anche in ambito filmico e compositivo divenendo perfino poetessa. Lei stessa descriveva il suo processo creativo come una coreografia: un delicato gioco di equilibri tra spazio, luce, suono e ritmo che culmina in un’esperienza completa per lo spettatore.
Chi era Rebecca Horn?
Nata a Michelstadt nel 1944, Rebecca Horn ha studiato pittura e scultura alla Hochschule fur Bildenden Kunst di Amburgo, per poi proseguire gli studi a Londra, nel 1970, al St. Martin’s School of Art e successivamente trasferirsi negli Stati Uniti. Il suo talento è stato ben presto riconosciuto a livello internazionale e così, a soli ventotto anni, ha partecipato a Documenta 5 (1972), invitata dal celebre curatore Harald Szeemann: è qui che ha luogola prima grande performance pubblica. Nello stesso anno l’utilizzo delle piume ha segnato un punto di svolta nel lavoro della Horn, aprendo la strada alle celebri opere meccaniche che riflettono l’interesse crescente per la tecnologia e l’interazione tra il regno umano e non.
Negli Anni Ottanta la sua pratica si è poi ampliata comprendendo installazioni site-specific: ne è un esempio la collaborazione con Jannis Kounellis in un ex manicomio a Vienna che ha consolidato la sua attrazione per la memoria storica degli spazi. Nel 1989 è stata la prima donna a ricevere il prestigioso Carnegie Prize e tre anni dopo ha vinto il Trägerin des Kaiserrings di Goslar, consacrando così la carriera nel panorama artistico. Esposizioni a lei dedicate sono state organizzate in alcuni dei più celebri musei mondiali come il Guggenheim di New York, la Tate di Londra, il Centre Pompidou di Parigi e la Nationalgalerie di Berlino.
Il corpo e il rapporto con lo spazio
Come già menzionato, nella ricerca artistica di Rebecca Horn ha sempre ricoperto un posto di rilievo il corpo e il rapporto con lo spazio. Molto probabilmente questo profondo interesse è scaturito dalla grave malattia che l’ha colpita durante l’adolescenza, la tubercolosi, che ha influenzato la sua esplorazione dell’essere come entità al contempo fragile e resiliente.
Lo si può notare nelle prime performance, come Einhorn (1971-72) e Kakadu – Mas ke (1973). Nella prima, la cui traduzione italiana del titolo è “Unicorno”, una giovane donna nuda, con un lungo corno bianco sulla fronte, attraversa campi e foreste all’alba rappresentando una femminilità fragile, ma armata. Con il passare del tempo la sua attenzione si è spostata verso gli oggetti e le loro interazioni con lo spazio, creando macchine capaci di relazionarsi assieme e coinvolgere lo spettatore attraverso stimoli visivi e sonori.
Molto importante è stato anche il rapporto con l’Italia, in particolare con Napoli. La sua storica galleria di riferimento è stata lo Studio Trisorio e nella città partenopea viene ricordata per alcune significative installazioni. Ad esempio quella realizzata in Piazza del Plebiscito nel 2002, “Spiriti di madreperla”, in cui ha riempito lo spazio con 333 teschi in ghisa sormontati da un’aureola di neon bianco: un toccante omaggio alle “capuzzelle” e al culto dei morti.
Rebecca Horn, Spiriti di madreperla
Altresì a Torino la presenza di Rebecca Horn ha “lasciato il segno”: l’opera “Piccoli Spiriti Blu” decora in maniera permanente lo spazio intorno a Santa Maria al Monte dei Cappuccini ed è visibile ogni anno nell’ambito della manifestazione Luci d’Artista.
Pioniera anche nel mondo del cinema
Horn è stata oltretutto una pioniera perfino nel mondo del cinema, essendo tra le prime artiste a creare sia cortometraggi che lungometraggi. Le realizzazioni iniziali sono profondamente autobiografiche, incentrate sul corpo e sulla guarigione. I lungometraggi successivi sono, invece, caratterizzati da narrazioni surreali e tragicomiche che esplorano la condizione umana in uno spazio ristretto, spesso isolato, offrendo uno studio filosofico sull’individuo e l’universo.
La sua scomparsa, avvenuta nei primi giorni di settembre, non segna di certo la fine dell’influenza nel panorama artistico. Nel corso della carriera i lavori di Rebecca Horn sono stati venduti in asta ben 464 volte, con la prima transazione registrata nel 1991 e l’ultima, “Federhandschuh”, avvenuta quest’anno[1].
Un numero destinato a crescere poiché collezionisti e istituzioni continuano a riconoscere l’importanza duratura del suo lavoro. Sebbene il principale mercato di sbocco sia la Germania si prevede una richiesta delle opere a livello globale, come spesso accade dopo la scomparsa di un grande artista: le quotazioni tendono a salire e anche per Rebecca Horn tale andamento sembrerebbe essere confermato. Il suo spirito pionieristico, il profondo interesse per lo studio della condizione umana e la capacità di fondere corpo e macchina hanno lasciato un segno indelebile nel mondo dell’arte e i suoi lavori continueranno a crescere in valore e significato.
[1] Fonte: Artprice.