Le piccole e medie imprese italiane, specie quelle a conduzione famigliare, avrebbero solo da guadagnare dall’apertura dei board a consiglieri esterni
Un problema culturale, che riguarda anche il passaggio generazionale, spesso finisce per prevaricare le performance
La consulenza risponde con l’approccio olistico
Pmi dalla governance ermetica
Il risultato più significativo? Le pmi italiane sono troppo chiuse. Ha spiegato il professore Minichilli: “Come lo scorso anno, la prima necessità per le piccole società non quotate è quella di aprire la governance oltre che il capitale. Nelle aziende dal fatturato inferiore ai 100 milioni, come in quelle che invece lo superano, la proprietà è sempre concentrata in poche mani”. Possiamo in questo senso imparare qualcosa dalle società quotate che essendo soggette a regolamentazioni più rigide, recepiscono più facilmente indicazioni quali l’apertura del consiglio di amministrazione ai consulenti indipendenti, esterni. “Nelle non quotate, specie se a conduzione famigliare, è invece difficile. Qui solo nel 24% dei casi si trovano consiglieri che non abbiano legami con la proprietà e questo è un pezzato, perché i membri indipendenti hanno qui un impatto sulle performance più incisivo che non nelle imprese quotate”. Come mai? Perché sono poco diffusi e quindi fanno la differenza. E per questo si pone un problema di domanda e di offerta: non esiste un “mercato di consiglieri indipendenti”. Ha ribadito a We Wealth Daniela Montemerlo, Sda professor e professore ordinario Università dell’Insubria: “Il processo di inserimento dei consiglieri esterni è graduale: in alcuni casi il punto di arrivo è l’arrivo del consigliere indipendente in senso proprio ma salvo eccezioni quando le imprese famigliari si decidono ad aprire la governance ai non soci o non manager, non si rivolgono a dei totali estranei ma soggetti conosciuti, in gergo gli outsider affiliati. Hanno magari lavorato come consulenti per l’azienda, oppure sono stati nominati da persone vicine alla dirigenza: si tende a rompere la barriera della diffidenza verso l’estraneo con soggetti comunque conosciuti”. Secondo la definizione di Borsa Italiana, infatti, il consigliere dovrebbe essere una persona del tutto priva di legami economici, lavorativi, societario e – ovviamente – famigliare. Solo in una seconda fase, ha spiegato poi la professoressa Montemerlo, si fa passa da una ricerca informale ad una più istituzionale, facendo ricorso ai cacciatori di teste oppure (ma in Italia rispetto agli Stati Uniti sono ancora molto rari), ai search fund.
Leadership collegiale
Il secondo dato che i curatori della ricerca hanno evidenziato riguardano i diversi modelli di leadership. Alessandro Minichilli: “Abbiamo osservato che molte aziende non quotate nel nostro paese tendono ad avare più amministratori delegati: tre, quattro, in qualche caso anche di più. Il 38% delle aziende famigliari e il 40% delle aziende di coalizione hanno questo modello di leadership, che noi chiamiamo collegiale – si tratta di migliaia di aziende”. Un dato significativo, specie perché il comando di più persone “può essere un problema se non è funzionale al tipo di business, come il frazionamento per aree geografiche. Se invece si tratta di una replica di delega finalizzata al mantenimento di un equilibrio all’interno della coalizione proprietaria può essere fonte di conflitti”. La leadership diffusa deve essere sostenuta da una necessità.
Presidenza e amministrazione
E’ poi importante la separazione tra il ruolo del presidente e quello dell’amministratore delegato. Daniela Montemerlo: “In questo modo il numero uno dell’azienda può essere libero nell’operatività. Ma è anche necessario anche dare alla presidenza un ruolo pieno, forte: quando è così, le altre condizioni di buona governance sono facilitate: un presidente distinto dall’ad può curare meglio la composizione del consiglio di amministrazione e il buon funzionamento della diversity nel consiglio, perché non è facile mettere insieme mettere insieme consiglieri diversi, ci vuole qualcuno che trasformi le loro differenze in complementarietà”.
Imprenditore e passaggio generazionale
I vantaggi per chi riesce a costruire una governance davvero virtuosa sono molteplici: in fatto di performance e fatturato, certamente, ma anche di espansione e reputazione. Manca però, conclude Minichilli, la cultura giusta, specie riguardo al passaggio generazionale. Qui entra in gioco la consulenza e l’approccio mentale nella relazione con il cliente, come ha spiegato il vicedirettore di Banca Generali Andrea Ragaini: “Normalmente gli intermediari si concentrano sugli aspetti finanziari, invece qui risulta evidente il bisogno dell’approccio olistico. Da una parte la banca finanzia la ricerca e la conoscenza, per capire dove vogliamo arrivare e come; dall’altra deve avere un approccio con il cliente che sia inclusivo rispetto alle sue declinazioni patrimoniali, relazionali, famigliari. Lo sforzo è fare consulenza non pensando solo agli strumenti ma a un insieme di bisogni”.
Per concludere, un consiglio per gli imprenditori? Risponde la professoressa Montemerlo: “Concentratevi sulla parte strategica e non lasciatevi sopraffare dalla operatività quotidiana. Potrete concentrarvi meglio sulla strategia”.