Ci sono delle opere d’arte sicuramente autentiche, delle opere d’arte sicuramente false e poi c’è una vasta area grigia di opere d’arte sulle quali non abbiamo abbastanza informazioni per decidere. Questa cosiddetta “area grigia” è uno spunto di riflessione interessante per gli storici dell’arte, ma potrebbe esserlo meno per i collezionisti, il mercato dell’arte e molte fondazioni e archivi di artisti. Gli archivi e le fondazioni spesso utilizzano un linguaggio definitivo come “archiviazione” e i cataloghi ragionati a volte mettono in copertina la rassicurante parola “opere complete.” Ma non è necessariamente così che funziona la storia dell’arte. Nel caso di Vincent van Gogh, lo specialista Martin Bailey ha recentemente riportato su The Art Newspaper che numerosi dipinti dubbiosi sono stati sottoposti a un progetto di ricerca scientifica e tecnica durato 5 anni, che ha ora concluso che 9 di essi sono attribuibili a van Gogh.
Non si tratta di un semplice spostamento dell’opinione di un singolo esperto sulla base del suo occhio, ma piuttosto del risultato di un rigoroso approccio di equipe basato sulle prove, che include una profonda esaminazione visiva comparativa, ulteriori ricerche sulla provenienza, e l’utilizzo di nuovi strumenti di analisi scientifica.
L’autoritratto
Un esempio è l’Autoritratto del 1889 del Museo Nazionale di Oslo, ritenuto per molti anni un falso. Come riporta il sito web del museo, il dipinto fu acquistato dal museo nel 1910 ma nel 1970 la sua autenticità fu messa in dubbio dagli studiosi: i connoisseurs hanno contestato lo stile e l’utilizzo del colore dell’opera, che non sembrava tipico di van Gogh, e l’opera aveva una provenienza incompleta. Anche la data di esecuzione era incerta, così come il luogo di creazione (Arles, Saint-Rémy-de-Provence o Auvers-sur-Oise).
Tuttavia, nel 2006, ulteriori indagini sulla provenienza hanno rivelato che il ritratto era originariamente appartenuto agli amici di van Gogh Joseph e Marie Ginoux ad Arles, anche se la data in cui l’opera è stata consegnata ai Ginoux e quella in cui è stata realizzata rimanevano ancora questioni aperte. Nel 2014, il Museo di Oslo ha invitato il Museo Van Gogh a rivalutare lo stile, la tecnica, il materiale, la provenienza e l’iconografia dell’opera.
Confrontandola con altre di quel periodo, tutte realizzate su tipi di tele simili, con analoghi pigmenti e pennellate insolite e colori cupi, la data di creazione dell’opera è stata stabilita nell’agosto del 1889, tutto supportato da una lettera di Vincent al fratello dell’artista, Theo, del 20 settembre 1889, che descrive un dipinto come “un tentativo di quando ero malato”.
L’autoritratto fu infatti ipotizzato di essere stato dipinto durante un grave episodio psicotico durato un mese e mezzo: il 22 agosto l’artista scrisse di essere ancora “disturbato” ma di sentirsi in grado di dipingere di nuovo. Il ritratto di Oslo, infatti, mostra van Gogh come un malato di mente, con la testa china e girata dall’altra parte rispetto all’osservatore, con uno sguardo laterale e un’espressione priva di vita, considerata tipica dei pazienti depressi e psicotici, a conferma del fatto che l’artista dipinse il suo autoritratto alla fine del suo primo grave episodio psicotico nel manicomio di Saint-Rémy. Grazie a questa nuova attribuzione, il dipinto tornerà ora in mostra dopo mezzo secolo.
Il vaso di papaveri
Tornerà in mostra dopo 30 anni in deposito anche il Vaso di papaveri (1886) del Museo Wadsworth Atheneum nel Connecticut, accettato per una rivalutazione dal Museo Van Gogh. L’opera era stata ritirata dall’esposizione per lo stile e i colori atipici. Ma durante questo studio, lo strato di fondo, i pigmenti e lo stile sono stati rivalutati e ritenuti compatibili con il lavoro dell’artista in quel periodo; inoltre, un’immagine a raggi X e una riflettografia a infrarossi del dipinto mostrano il profilo del ritratto di un uomo nascosto sotto il dipinto floreale, che è stato scoperto quando i ricercatori hanno ruotato la tela di 180 gradi. Pure delle nuove ricerche sulla provenienza supportarono la riattribuzione. All’inizio dell’autunno di quell’anno, van Gogh aveva scritto in inglese al suo amico artista britannico Horace Livens, spiegando che “non avevo soldi per pagare i modelli”.
Per questo motivo aveva trascorso l’estate facendo “una serie di studi sui colori dipingendo semplicemente fiori, papaveri rossi, fiori di grano blu e non-ti-scordar-di-me… cercando di rendere il COLORE intenso e non un’armonia grigia”. In più, il mercante parigino Ambroise Vollard fece riferimento a una tela di “coquelicots” (papaveri). L’opera è stata datata all’inizio dell’estate del 1886, anche perché i fiori raffigurati – i papaveri – fioriscono solitamente a Parigi nei mesi di giugno e luglio.
La natura morta di fiori
Una situazione simile si è verificata con il Kröller-Müller Museum, che nel 1974 ha acquistato una natura morta di fiori di Vincent van Gogh, ma le sue dimensioni e il suo stile sono stati ritenuti incoerenti con il lavoro tipico dell’artista, compreso il fatto che i fiori sono stati considerati troppo eccessivi, portando il dipinto a essere ri-etichettato come “precedentemente attribuito a Van Gogh”.
Ma gli studi ai raggi X effettuati al Museo Van Gogh hanno rivelato la presenza di due lottatori dipinti sotto la natura morta floreale, che corrispondono a una lettera che Vincent scrisse al fratello nel gennaio del 1886: “Questa settimana ho dipinto una cosa grande con due torsi nudi – due lottatori […] E mi piace molto farlo”. Un gruppo di ricerca, composto da più esperti provenienti da diversi paesi, ha stabilito che il dipinto sottostante è effettivamente dell’artista e che egli vi ha dipinto sopra la natura morta in un secondo momento, probabilmente per risparmiare denaro riutilizzando le tele.
La Natura morta con frutta e castagne
Anche i cataloghi ragionati, spesso considerati le “bibbie” sugli artisti, dovrebbero essere cauti riguardo alla completezza. La Natura morta con frutta e castagne (1886) alla Fine Arts Museum di San Francisco, è stata esclusa da uno dei cataloghi ragionati di van Gogh e perciò tolta dall’esposizione, ritenuta un falso. Ma recentemente è stato trovato un riferimento a “pere e castagne” in un inventario del 1890 compilato poco dopo la morte di van Gogh, con l’aggiunta della parola “Bernard”. Questo ha portato gli studiosi all’amico dell’artista Emile Bernard e si è scoperto che sua madre vendette a Vollard un’opera con quel titolo e con le esatte dimensioni del quadro di San Francisco nel 1899.
La riflettografia a infrarossi effettuata al Museo Van Gogh ha rivelato che, ancora una volta, l’artista ha riutilizzato una tela: sotto la natura morta è stata trovata un dipinto di una donna con una sciarpa, probabilmente eseguita qualche mese prima quando l’artista si trovava ad Anversa.
Questo e gli altri dipinti riattribuiti dimostrano la fluidità di alcune attribuzioni e dei cataloghi ragionati. Inoltre, dimostrano l’importanza per i collezionisti e i musei di avere la possibilità di riproporre un’opera d’arte a una fondazione o a un archivio, e di lasciare aperte le possibilità di appello alle decisioni quando non sono emerse ancora delle prove definitive. Certo, dobbiamo ricordare però che non tutte le opere vivono nell’area grigia dell’incertezza e moltissime hanno attribuzioni solide, ben documentate e immutabili.