Diversity e indipendenza. Perché i cda funzionano in maniera efficace bisogna potenziare queste due caratteristiche e l’Italia deve farlo con maggior convinzione, essendo più indietro del resto d’Europa sulla strada.
Ne abbiamo parlato con Alessandro Carretta, presidente di Nedcommunity, associazione focalizzata sulla governance societaria che riunisce un ampio spettro di professionisti, tra cui amministratori indipendenti, sindaci di società quotate e esperti di governance. Fondata da 20 anni, l’associazione svolge un ruolo cruciale nella formazione e nello sviluppo delle competenze dei suoi membri, promuovendo pratiche di governance solide.
Partiamo dalla questione della diversità, “un tema di grande rilevanza nella società contemporanea e anche nella governance societaria – dice Carretta – L’associazione promuove la diversità di genere, con una composizione equilibrata tra uomini e donne sia tra i membri sia nel proprio consiglio di amministrazione. E non lo facciamo per una questione solo etica o di buonismo: ricerche empiriche ormai consolidate dimostrano che la presenza di donne nei consigli di amministrazione migliora le performance aziendali”.
Donne in cda: nelle banche generano un risparmio di 7,5 milioni all’anno
In genere le donne sono più presenti alle riunioni, fanno più interventi e hanno una minore propensione alle frodi. Nel caso delle banche c’è una verifica empirica pubblicata in un prestigioso Journal internazionale recente che segnala come le banche europee soggette ai controlli delle autorità statunitensi per evasione fiscale, manipolazione del mercato e frode sono “migliori”, cioè oggetto di minori sanzioni, al crescere della presenza femminile nei cda “e tale positiva influenza – precisa Carretta – è maggiore se le donne sono almeno tre e fanno massa critica. Al riguardo è stato stimato un “risparmio” su un campione di oltre 80 banche in 21 paesi europei (i tre quarti del mercato bancario europeo) di circa 7,5 milioni di euro l’anno per dieci anni”.
Ma c’è ancora tanta strada da fare quanto a presenza di donne ai vertici nel nostro Paese. Secondo gli ultimi dati ufficiali, riferiti al rapporto per il 2022 della Consob, la presenza femminile nei board delle quotate italiane ha raggiunto il 43%. In media nei cda siedono dunque 4 donne, con una presenza femminile più elevata tra le società di media-alta capitalizzazione e nel settore finanziario. Se si esce dal mondo delle quotate, la situazione cambia. Secondo uno studio pubblicato da Banca d’Italia alla fine del 2022 e riferito alle banche italiane, la presenza di donne nei board si incrementa nel tempo, in relazione ai vincoli della legge 120/2011 (Golfo Mosca) sulle “quote rosa”, nelle società quotate: ma nelle banche non quotate, anche appartenenti a gruppi con capogruppo quotate, non è adeguata.
E gli indipendenti? La differenza tra quotate e non quotate
L’inserimento delle donne nei cda si manifesta quindi in ossequio a norme di legge ma non è ancora vista come un’opportunità generale.
Tornando alle quotate, circa 3 donne su 4 si qualificano come amministratori indipendenti. Questi ultimi, elemento chiave di una governance funzionante, prescindendo dal genere e in base ai criteri del TUF, sono mediamente oltre 5 (in crescita di 1 rispetto a 10 anni fa) nei board, con un peso di oltre il 50%.
“Attualmente, le società quotate in Italia devono avere almeno un amministratore indipendente se il consiglio di amministrazione è composto da sette membri o più; se il consiglio è più piccolo, devono esserci almeno due amministratori indipendenti – dice Carretta – Tuttavia, per le società non quotate, non esiste una norma specifica. In Italia, la presenza di amministratori indipendenti nelle società non quotate è ancora relativamente rara, in parte a causa delle strutture aziendali e delle relazioni personali”.
Eppure i consiglieri indipendenti sono strategici perché pur non gestendo direttamente la società, “sono chiamati a esercitare un ruolo di controllo e critica costruttiva sulle decisioni aziendali – continua Carretta – Devono assicurarsi che le strategie e i piani aziendali siano attuati in modo adeguato. Inoltre, devono bilanciare gli interessi diversi tra il consiglio di amministrazione e la dirigenza dell’azienda”.
L’Italia ha una cultura meno diffusa di amministratori indipendenti rispetto ad alcuni paesi europei, come il Regno Unito e la Francia, che vantano un numero significativamente maggiore di società quotate. “Mancano in Italia i percorsi di formazione e qualificazione specifici per gli amministratori indipendenti, un elemento che potrebbe favorire una maggiore presenza. Aumentare i requisiti minimi per i consiglieri indipendenti potrebbe promuovere una migliore qualità decisionale non solo nelle imprese private ma anche in quelle pubbliche”, conclude Carretta.