Una solida base macroeconomica. Politiche energetiche e climatiche forti e chiare. Stabili e significativi indicatori di uguaglianza sociale. Una governance che facilita e promuove l’innovazione. Sono questi alcuni dei fattori che contribuiscono a eleggere la Danimarca come il campione europeo di sostenibilità. Un titolo che potrebbe portare il paese danese a non essere tra quelli che, secondo il World Economic Forum, subiranno un declassamento del proprio credito sovrano entro la fine del decennio a causa dei rischi legati al cambiamento climatico. Dal momento che i crediti sovrani, che rappresentano un indicatore fondamentale nell’orientare le scelte degli investitori, saranno influenzati da considerazioni di sostenibilità, ora più che mai è importante per i gestori patrimoniali analizzare e capire il profilo ESG dei vari paesi.
Un modello per valutare la performance ESG di un paese
Il modello sviluppato dagli esperti di MainStreet Partners mira a valutare le performance di 131 paesi in relazione a importanti tematiche di sostenibilità ambientale, sociale e di buon governo non solo allo stato attuale, ma incorporando il “momentum”, ossia le tendenze positive o negative degli ultimi cinque anni. “Crediamo che i paesi debbano essere premiati nel caso di costanti miglioramenti, motivo per cui assegniamo un peso del 30% (dove applicabile) alle tendenze, mentre il restante 70% è destinato alle performance attuali” spiegano dalla società. “Questo significa che se un paese ha dimostrato sforzi significativi e consistenti nel migliorare le proprie pratiche di sostenibilità negli ultimi cinque anni, riceverà un punteggio più alto rispetto a una valutazione basata solo su un singolo periodo di tempo”.
Ai tre pilastri dell’ESG (ambientale, sociale e di buon governo), a cui è attribuito una quota del 30% ciascuno, si aggiunge anche una quota relativa alle performance macroeconomiche, quarto pilastro che conta per il restante 10%. “Una solida base macroeconomica permette ai paesi di dedicare più risorse e con più costanza all’attenuazione dei rischi ESG” sostiene MainStreet.
Ciascuna area è poi divisa in diverse categorie (ad esempio, l’efficienza delle risorse, il cambiamento climatico e l’economia circolare), al cui interno rientrano 30 indicatori e 102 sotto-indicatori, conosciuti anche come metriche chiave di performance. Così facendo, un paese campione di sostenibilità potrebbe essere descritto come “quello che si impegna a ridurre il proprio impatto sulla natura, favorendo fonti di energia pulita e preservando il proprio capitale naturale, come foreste e mari; fornisce adeguati servizi essenziali come istruzione e accesso a internet, garantisce una crescita sostenibile della propria popolazione e riduce le ineguaglianze; adotta un sistema politico solido, soggetto alla legge, e sostiene un ambiente favorevole alle aziende; agevola la prosperità di lungo termine dei cittadini e riduce i rischi geopolitici attraverso una forte performance macroeconomica e sicurezza energetica”.
Sostenibilità ambientale: politiche forti e chiare e sviluppo di energie sostenibili
Secondo il modello ESG per paesi di MainStreet Partners, nel testa-a-testa Italia vs. Danimarca, il campione danese surclassa il Belpaese sia nel complessivo – con uno score di 4.69/5.00 (vs. 3.92/5.00 per l’Italia) – che in ciascuno dei quattro pilastri.
Nel pilastro ambientale, nonostante l’Italia riceva un buono score di 3.92/5.00, la Danimarca riceve uno score stellare di 4.95/5.00, con forti performance in tutte le categorie. Analizzando lo score nel dettaglio, risaltano le differenze nella categoria di ‘Climate Change’ dove la Danimarca eccelle sotto due aspetti chiave: le politiche climatiche e le politiche energetiche.
Anzitutto, il paese nordico ha obbiettivi chiari e ambiziosi: la Danimarca punta a ridurre le proprie emissioni del 70% (vs. il 55% stabilito dalla ‘Green Deal’ dell’Unione Europea) entro il 2030 rispetto al 1990, per raggiungere ‘Net Zero’ entro il 2050, oltre ad aver deciso di eliminare la prospezione del gas nel mare del nord sempre entro il 2050. Nonostante il paese si procuri già quasi la meta dell’energia da fonti rinnovabili, per rafforzare la credibilità di questi obbiettivi, il governo ha istituito un piano per sviluppare una ‘isola energetica’ a supporto dell’infrastruttura per l’energia eolica nel mare del nord, oltre ad aver introdotto una tassa sulla CO2 di circa $165 per tonnellata per certi settori dell’economia con l’aspettativa di tagliare 3.7 milioni di tonnellate di CO2 entro il 2030.
E poi c’è l’Italia… che nel ‘National Energy and Climate Plan’ (NECP) del 2021 specifica un obbiettivo di ridurre le emissioni del 51% (4% sotto il ‘Green Deal’ Europeo), specificando una ‘Long-Term Strategy’ basata sul gas fossile come combustibile di transizione fino al 2050, e un mix energetico dove solo il 95% dell’energia utilizzata proverrà da fonti rinnovabili. Il resto delle riduzioni per arrivare a ‘Net Zero’ saranno raggiunte via metodi di ‘Carbon Capture and Storage’. Risulta quindi chiaro dall’analisi degli score che la prima cosa che l’Italia dovrebbe imparare dai cugini nordici è che un livello maggiore di chiarezza e pianificazione rende più semplice raggiungere gli obiettivi a lungo termine.
Tuttavia, questa capacita della Danimarca di fissare obbiettivi ambiziosi sia nel corto che nel lungo termine è in parte consentita da una forte coesione sociale e da una buona fiducia nella governance, riflettuta nello score di 4.56/5.00 nel pilastro sociale (vs. 3.63/5.00 dell’Italia) e di 4.50/5.00 nel pilastro di governance (vs. 3.63/5.00 dell’Italia). Senza dubbio, le politiche redistributive dei ‘Welfare States del nord’ garantiscono una sicurezza economica che riduce la paura verso i cambi dettati dalle politiche per il clima. Un esempio pratico sono i 593 milioni di dollari designati dal governo a supporto degli agricoltori che devono ridurre le loro emissioni del 55-65% entro il 2030. Fattori come questi vengono considerati nella categoria sociale di Human Capital con sotto-indicatori come il coefficiente di GINI (misura di disuguaglianza), e anche nella categoria di “Investment e Innovation” (governance), con sotto-indicatori riguardanti la percentuale del PIL dedicata a finanziare attività di impatto sociale.
Infine, se nel testa-a-testa la Danimarca ha attivamente vinto nei pilastri Sociali e Ambientali, è l’Italia a perdere la partita nel pilastro Macroeconomico, con uno score di 2.87/5 (vs. 4.86/5 della Danimarca) dovuto principalmente ad un alto debito sovrano.
Senza dubbio, la stabilità e prosperità macroeconomica hanno una chiara influenza sulle possibilità di un paese di seguire l’esempio della Danimarca, così come una buona governance e la protezione dei più vulnerabili hanno un effetto sulla coesione sociale e quindi sulla lotta al cambiamento climatico. La lezione per l’Italia è quindi questa: non bastano politiche climatiche forti e ambiziose per diventare un campione di sostenibilità; serve anche una forte coesione sociale, così come sano rapporto tra cittadini e istituzioni governative.
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