Tv e reti via cavo, stampa e giornali cartacei, petrolio e fonti non rinnovabili, commercio retail al dettaglio, tecnologie ormai superate: “Le aziende che sono all’epicentro dell’obsolescenza tecnologica continuano a subire un impatto negativo” ha presicato David Giroux, chief investmenbt officer Equity and multi-asset di T. Rowe Price. “La prossima fase di questa rivoluzione economica, che chiamiamo disruption 4.0, tuttavia, non è limitata ai soli settori specifici, ma sta trasformando in maniera strutturale e trasversale i modelli di business di tutta l’economia globale”.
Disruption, causa di successo e mediocrità
A causa delle cattive decisioni sull’allocazione del capitale, “molte società sfidate dalla disruption diventeranno probabilmente investimenti mediocri nel lungo periodo, indipendentemente dalle loro valutazioni”. Dal canto opposto, la disruption ha però creato l’ambiente ottimale per lo sviluppo di quei settori tradizionali più in linea con le esigenze del tempo, a partire dal settore delle utilities. Quest’ultimo ha beneficiato, in primis, di un nuovo contesto di regolamentazione che agevola l’avvio di nuovi impianti energetici; in secondo luogo, dello sviluppo della tecnologia del fracking, che ha abbattuto la domanda (e i prezzi del gas naturale) incrementando i return on equity; infine, della diffusione delle fonti rinnovabili, via via sempre più a basso costo: “La generazione di energia solare ed eolica in alcune regioni e in alcuni momenti della giornata è oggi meno cara della produzione di energia dal carbone” hanno sottolineato da T. Rowe Price. Anche i costi operativi degli impianti di energie rinnovabili tendono inoltre ad essere significativamente più bassi di quelli degli impianti energetici convenzionali.
Evoluzione a favore del settore delle utility
La crescita del settore delle utility è riscontrabile dall’analisi dei dati: se si guarda al periodo dal 2007 al 2017, il tasso composto di crescita annua per gli utili dell’indice S&P Utilities è stato del 4,1%. Anche l’impatto sugli utili è stato dirompente: “L’industria delle utility ha visto una crescita degli utili virtualmente pari a zero dal 1986 al 1998, mentre gli utili dell’S&P 500 nello stesso periodo sono lievitati del 150%. Questo divario si è però ristretto in misura sostanziosa negli ultimi due decenni: il continuo calo dei costi delle rinnovabili e i miglioramenti nella capacità di stoccaggio del carburante potrebbero innescare un periodo di crescita degli utili pluridecennale” hanno aggiunto da T. Rowe Price.
Un’attenta selezione dei titoli in fase di definizione di portafoglio è necessaria “per evitare aziende in difficoltà o che hanno come mercati di sbocco Paesi con regolamentazioni inadeguate”. A livello indicativo, “una utility in grado di avere una crescita potenziale degli utili intorno al 6% annuo, con un dividendo pari a 1,5 volte il rendimento sul Treasury decennale, dovrebbe scambiare ad un multiplo più alto di quanto non faccia oggi”.
Selezione di portafoglio: il rischio secolare
A somme fatte, ciò che più conta in fase di selezione di portafoglio, è valutare il problema del rischio secolare, inteso non solo come le possibilità di sopravvivenza di una azienda alla disruption tecnologica, ma anche la percezione che il mercato avrà circa la sostenibilità di quel business.
“Perfino una società di successo non esposta alla disruption può patire una forte compressione se il mercato interpreta i suoi problemi come rischio secolare” hanno evidenziato infine da T. Rowe Price, aggiungendo: “L’emersione del rischio secolare crea un potente vento a favore della gestione attiva e rappresenta una difficile sfida per gli investimenti passivi per i prossimi cinque o dieci anni. Essa mette anche in luce l’importanza degli investimenti di lungo termine, su un orizzonte da tre a cinque anni”.