A maggio la Germania ha registrato il suo primo deficit commerciale dal 1991
Ottenerlo non sarà facile, ma “quello che serve per aumentare la fiducia e l’ottimismo del mercato finanziario, con un effetto espansivo, è proprio un trattato” che rafforzi le economie che condividono in questo momento un’alleanza strategica sul piano geopolitico, ha affermato a We Wealth l’economista Carlo Pelanda
E’ caduto uno dei più forti simboli della forza economica della Germania: a maggio, lo storico surplus commerciale si è trasformato in un deficit da 1 miliardo di euro. La costante crescita dei costi delle importazioni, iniziata ancor prima del 2022, è la prima causa alla base del nuovo equilibrio commerciale tedesco.
A maggio, ha rilevato Destatis, le esportazioni si sono ridotte su base mensile dello 0,5%, mentre le importazioni (in termini di valore) sono aumentate del 2,7%.
La crisi geopolitica in corso appare evidente anche da un altro numero, quello delle esportazioni verso la Russia, diminute del 54,6% rispetto al maggio 2021.
“Il deficit commerciale tedesco era ormai scontato da tempo”, ha dichiarato a We Wealth il politologo ed economista, Carlo Pelanda (Università Guglielmo Marconi), “per la Germania c’è stato un rallentamento molto forte della crescita delle esportazioni sul mercato cinese e sono aumentati i costi di importazione dell’energia”. Si tratta di dinamiche prevedibili dal punto di vista economico, se si considerano le difficoltà della Cina con il covid e le conseguenze del conflitto in Ucraina sul mercato energetico. Eppure, l’aspetto simbolico di un deficit commerciale inflitto a un’economia che, da anni, si basa su un potente surplus ha l’aspetto di una svolta. “Gli analisti, piuttosto, dovrebbero osservare verso quali Paesi sono aumentate le esportazioni tedesche: noterebbero il netto incremento degli Stati Uniti”, ha affermato Pelanda.
Secondo gli ultimi dati di Destatis, nel periodo gennaio-maggio le esportazioni tedesche negli Usa sono aumentate del 24,5%, con un incremento del 47,8% nel solo mese di maggio. Lo scenario che si apre, nel nuovo contesto geopolitico inaugurato dalla guerra in Ucraina, “è che la Germania rinuncerà al mercantilismo, l’atteggiamento di chi mantiene una neutralità politica per poter intrattenere commerci con tutti”. Le divisioni crescenti fra i Brics e i Paesi occidentali costringeranno questi ultimi a rafforzare i commerci fra Stati “amici”, per non rafforzare ulteriormente i rispettivi avversari strategici. E’ un fenomeno di de-globalizzazione che potrebbe mettere in crisi la tradizionale logica libero-scambista per la quale la massima efficienza si raggiunge abbattendo progressivamente le barriere commerciali.
In questa nuova fase potrebbe riaccendersi il desiderio di un’area di libero scambio regionale fra Unione europea e Stati Uniti, riprendendo il filo del Ttip, da tempo interrotto. Ad indicarlo lo scorso marzo sono state, ad esempio, alcune dichiarazioni del ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner (“Dovremmo riprendere i negoziati… specialmente ora con la crisi”).
“Il modello tedesco, così come quello italiano, permette il finanziamento del welfare grazie al contributo delle esportazioni… è un modello che non può cambiare”, allo stesso tempo, però, gli sbocchi delle esportazioni potrebbero non essere più gli stessi. In questa luce“si pone il tema del mercato delle democrazie: la costruzione di una zona sicura all’interno della quale queste ultime potranno avere flussi commerciali abbastanza simmetrici”, senza soggetti in perenne condizioni di avanzo o deficit, come per lungo tempo sono state, per fare l’esempio più celebre, Cina e Usa. Secondo Pelanda questa è senza dubbio la direzione verso la quale le democrazie occidentali si stanno muovendo, anche se “il successo del nuovo modello resta ancora incerto”. Un ‘Ttip II’, avrebbe poche chance di essere approvato in tempi brevi e le resistenze interne che alcuni anni fa ne avevano decretato il tramonto rimangono difficili da superare, ha affermato il professor Pelanda. Il percorso, in Europa, è complicato dalla necessità di ratificare lo stesso accordo in ciascun parlamento nazionale – un percorso ad ostacoli che è stato completato, non senza intoppi, con i recenti accordi commerciali stretti con il Canada e il Giappone.
Negli Stati Uniti, nondimeno,“è quasi impossibile parlare in questo momento il linguaggio del trattato di libero scambio, perché sia a destra sia a sinistra c’è una prevalenza di tipo protezionistico” che si fonda sul “sentimento diffuso che l’America si sia impoverita per eccesso di concorrenza”. Una visione che mal si concilia con l’aperutura del mercato statunitense alle imprese europee.
Eppure, “quello che serve per aumentare la fiducia e l’ottimismo del mercato finanziario, con un effetto espansivo, è proprio un trattato” che rafforzi le economie che condividono in questo momento un’alleanza strategica sul piano geopolitico. E, insieme ad esse, anche “quell’area grigia che sta nel mezzo fra il blocco delle democrazie e quello sino-russo”. A questa “riglobalizzazione selettiva”, ha affermato Pelanda, “si arriverà, anche se sarà un processo lungo”. Difficile credere, invece, che il ritorno della globalizzazione multilaterale sarà possibile o auspicabile, ha aggiunto il professore, “dal momento che ha indebolito le democrazie”. Per quanto possa suonare cinico, il globalismo come valore assoluto sarebbe tramontato assieme all’egemonia statunitense.