Attualmente sono sette le direttive europee in materia di cooperazione amministrativa nel settore fiscale, che hanno introdotto l’obbligo per le amministrazioni dei vari Stati di raccogliere determinate informazioni, archiviarle e scambiarle con gli altri Stati potenzialmente interessati periodicamente. A marzo di quest’anno, è stata approvata l’ultima in ordine di tempo, ovvero la direttiva Dac7, che da una parte obbliga i gestori delle piattaforme digitali a comunicare i redditi percepiti dai venditori/clienti attivi sulle loro piattaforme, dall’altra allarga e rafforza le disposizioni in materia di scambio di informazioni e cooperazione amministrativa tra gli Stati Ue.
Anche la Dacc6 nasce in ambito Ocse come risposta dell’Ue alla Azione n. 12 (Mandatory disclosure rules) del progetto Beps volto a colpire i meccanismi transnazionali tesi a trasferire gli utili imponibili verso regimi tributari favorevoli o che hanno come effetto quello di ridurre le imposte esigibili nei confronti dei contribuenti, ovvero aggirare lo scambio di informazioni automatiche ai sensi del Crs. Si tratta solitamente di schemi messi in atto da alcune imprese multinazionali per ridurre il carico fiscale a livello di gruppo oppure per ottenere vantaggi fiscali indebiti.
Tuttavia, se lo scopo originario era quello di combattere gli aggiramenti delle norme fiscali da parte delle grandi corporation, il risultato è che anche i contribuenti persone fisiche ne sono colpiti e con loro tutta l’industria del wealth management.
Difatti, i meccanismi per ricadere nell’ambito della direttiva devono prevedere uno o più elementi distintivi, cosiddetti hallmarks, cioè “indici di rischio di elusione o evasione fiscale” (art. 2, c. 1, lett. f), D.lgs. n. 100/2020), che si dividono in generici e specifici. Tutti i primi e alcuni dei secondi devono inoltre soddisfare il cosiddetto main benefit test, ovvero la circostanza che il meccanismo abbia come scopo principale un potenziale vantaggio fiscale rispetto ai vantaggi extra fiscali. Premesso che la quantificazione dei vantaggi extra fiscali è un esercizio alquanto aleatorio, la genericità della definizione può portare a includere nel novero dei meccanismi diversi strumenti finanziari, fra cui quelli che permettono il tax deferral, come le polizze vita, i trust e i fondi di investimento, in particolare quelli di private equity. Questi ultimi infatti sono spesso collocati in giurisdizioni a bassa tassazione e strutturati in modo minimizzare il carico fiscale sui proventi, segnatamente le ritenute in uscita.
Inoltre, la Dac6 introduce per la prima volta un’inversione del paradigma sinora adottato dalle amministrazioni finanziarie sotto almeno due aspetti. Il primo riguarda il profilo predittivo della segnalazione, ovvero la comunicazione avviene prima che il meccanismo sia attuato (più precisamente entro 30 giorni dalla messa a disposizione dello schema oppure da quando è stata fornita la consulenza). Il secondo riguarda la potenzialità del risparmio di imposta senza entrare nel merito della sua legittimità o liceità, o persino se non sia sterilizzato da altre disposizioni, ad esempio, la tassazione degli utili per trasparenza ai sensi della Controlled foreign company (Cfc). La verifica è lasciata agli operatori, che sono tenuti a segnalare l’operazione alle amministrazioni finanziarie, nel caso dell’Italia all’Agenzia delle entrate. Fra questi si annoverano gli intermediari finanziari (banche, fiduciarie, sim, sgr, ecc.) e per la prima volta i consulenti, quali avvocati, notai e commercialisti, nonché i contribuenti stessi qualora non intervenga un intermediario europeo o l’intermediario non fornisca evidenza al contribuente di avere proceduto alla comunicazione.
Risulta evidente che il rapporto di fiducia fra cliente e proprio consulente viene fortemente minato, posto che il primo avrà il timore che il secondo possa segnalare l’operazione alle autorità fiscali. Le uniche eccezioni riguardano ipotesi marginali, ovvero la tutela del segreto professionale (che dovrebbe essere la regola e non l’eccezione, come ad esempio in Lussemburgo) o il rischio di autoincriminazione.
Non a caso la dottrina ha criticato la normativa in quanto va oltre i principi di proporzionalità e di coerenza. Difatti, sinora le informazioni che alimentano le banche dati delle amministrazioni finanziarie sono servite a individuare fattispecie elusive o evasive. La Dac6 inverte il paradigma sinora adottato, ribaltando sugli intermediari e sui contribuenti l’onere delle comunicazioni di operazioni potenzialmente elusive o evasive tramite nuovi adempimenti, che comportano ulteriori costi, procedure e soprattutto minano da una parte il rapporto fra consulente e cliente e dall’altra la privacy dei cittadini. Quest’ultima già fortemente limitata dalla mole di informazioni che confluiscono nell’anagrafe tributaria e nelle altre banche dati in possesso dell’amministrazione pubblica.
In ambito Ocse, solo l’Unione europea si è spinta fino a tanto. Per altro, la direttiva lascia un ampio margine di discrezionalità agli Stati membri nell’implementare le misure attuative all’interno del proprio ordinamento creando ulteriore complessità e disparità di trattamento. Ad esempio, l’Italia è stata fra gli Stati che hanno adottato la direttiva in modo più estensivo e rigido, per contro, il Regno Unito, ora fuori dalla Ue, si è limitato alla misura più blanda possibile
È difficile immaginare che le informazioni messe a disposizione ai sensi della Dac6 possano sfociare in accertamenti massivi. Rimane tuttavia un effetto deterrente nei confronti di tutti quegli schemi che possono ricadere nell’ambito di applicazione della direttiva.