Il G20 può rimediare, almeno in parte, applicando l’aliquota minima del 15%. Ma non basta. Ecco perché (e perché sarebbe giusto aumentare le tasse sui grandi patrimoni)
Secondo un recente documento della Casa Bianca, le 400 famiglie più ricche d’America, con singoli patrimoni di almeno 2 miliardi di dollari, pagano una aliquota me dia dell’8,2% sul reddito; mentre il contribuente americano medio è soggetto a un’aliquota media del 13,3%. Intanto, il deficit/Pil degli Stati Uniti è salito al suo record dal 1945. Se i ricchi pagassero più tasse si potrebbe ridurrebbe il deficit e migliorerebbe l’equità. Eppure il Congresso è sordo a questi appelli.
Si consideri l’enorme scappatoia dei “carried interest” nel codice fiscale degli Stati Uniti, che considera le commissioni dei gestori di fondi di investimento guadagni in conto capitale (con tassazione più favorevole) e non reddito. Joe Biden ha dichiarato di voler cancellare questa regola, ma le proposte di riforma fiscale devono passare al vaglio dell’House Ways and Means Committee, presieduto da Richard Neal. Nel 2007 il dem Neal ha sostenuto un tentativo – fallito – di chiudere la falla.
Poi ha iniziato a ricevere grandi donazioni dalle aziende, tra cui 2,9 milioni di dollari solo per la sua campagna elettorale 2020. Nel mese di settembre la House Ways and Means Committee ha pubblicato le sue proposte di riforma fiscale: non c’era nessun accenno al sistema dei “carried interest”.
Anche Paesi diversi, in cui il denaro esercita minor influenza sulla legislazione, stanno lottando per tassare i ricchi. A inizio ottobre i Pandora Papers, pubblicati dall’International Consortium of Investigative Journalists, hanno riportato l’elenco delle persone di oltre 200 Paesi che spostano i loro beni offshore per evadere le tasse. Mentre scriviamo ancora non sappiamo se i leader del G20, che si sono riuniti a Roma il 30 e 31 ottobre, avranno approvato l’accordo che fissa per le big corp un’aliquota minima del 15%.
L’obiettivo è porre fine a una “corsa al ribasso” dei paesi che per attrarre investimenti dall’estero hanno progressivamente ridotto le imposte societarie. Ma quando anche venisse stilato, l’accordo prevederà un’applicazione graduale in oltre dieci anni ed esenzioni significative. Inoltre, l’aliquota minima del 15% è inferiore a quella in vigore nella maggior parte dei paesi sviluppati.
C’è qualcos’altro che il G20 potrebbe fare per la disparità fiscale tra i ricchi e la maggior parte dei lavoratori? Gli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman dell’Università di Berkeley hanno suggerito un’imposta patrimoniale dello 0,2% annuo sul valore delle azioni di tutte le società quotate in Borsa.
Una tale tassa, osservano, è progressiva, perché i ricchi possiedono molte azioni e i poveri nessuna. È anche difficile da eludere, perché il valore dei titoli quotati in Borsa è pubblico. Inoltre, un’imposta sul patrimonio non inciderebbe sulla disponibilità di finanza delle imprese, perché le società quotate in Borsa potranno emettere più azioni (diluendo leggermente il valore di quelle esistenti) e con esse pagare l’imposta ai governi, che potranno fare cassa vendendo i titoli sul mercato.
Riteniamo sia la via corretta per porre rimedio. La globalizzazione, che negli ultimi 30 anni ha sollevato centinaia di milioni di persone dalla povertà estrema, ha anche arricchito le multinazionali, consentendo loro di trasferire i profitti dove le tasse sulle imprese sono inferiori o nulle.
*articolo tratto da Project Syndicate, a firma di Peter Singer, Professore di Bioetica alla Princeton University