Il nostro Paese resta tra gli ultimi in Europa per il tasso di investimento nelle startup. Tra le altre, una delle ragioni di tale arretramento è da attribuire al fatto che l’Italia non è mai stata incline al capitale di rischio, anche se è sotto gli occhi di tutti un serio cambio di rotta negli ultimi anni. Gli Stati Uniti si collocano avanti anni luce rispetto all’Europa, ma l’Italia resta il fanalino di coda anche rispetto a contesti simili, come la Francia e la Spagna.
Valutazioni medie delle startup
I dati parlano chiaro: in Italia nella fase pre-seed e seed la valutazione media di una startup è rispettivamente di circa 2,5 milioni e 4,5 milioni di euro contro i 6,3 e 9,5 milioni di dollari in Usa per il medesimo stadio di investimento. Inoltre, nella fase successiva del Round A, le valutazioni in Italia si aggirano sui 10 milioni di euro, mentre in Usa la valutazione media è di 45 milioni di dollari.
Confronto Italia-altri paesi sullo sviluppo delle startup
La situazione di arretramento del nostro Paese non migliora se si guarda al contesto europeo, in cui la Spagna è il paese più sviluppato del sud Europa sia per ammontare raccolto (€4,1 billion nel 2021) che per numero di round (618); la Germania è il secondo paese europeo per numero di startup e volume degli investimenti, seconda solo alla Gran Bretagna, dal momento che nel 2021 il valore totale di tutti gli investimenti di capitale di rischio è più che triplicato, da 5,3 a quasi 17,4 miliardi di euro (+ 229%); senza considerare la Francia che nel 2022 si è imposta nel continente europeo come una “startup nation”, raccogliendo nel 2021 ben 11,6 miliardi di euro (10 volte il raccolto italiano nello stesso periodo).
Ostacoli allo sviluppo delle startup
Un fattore fondamentale che nel nostro Paese ostacola ingenti investimenti in imprese innovative è rappresentato da una congenita avversione al rischio soprattutto nelle fasi iniziale dell’impresa. Infatti, sono molteplici le imprese di elevata qualità che nessuno finanzia, o che vengono finanziate solo “a singhiozzo”, con un’impossibilità di svilupparsi e operare in maniera efficiente e con una valorizzazione delle stesse che cresce, di conseguenza, in modo lento e quantitativamente non elevato. Se da un lato è vero che investire gradualmente è tendenzialmente meno rischioso, dall’altro non permette alle imprese innovative, che necessitano di immediati e ingenti investimenti per iniziare a operare sul mercato, di svilupparsi in maniera adeguata.
Da startup a Unicorni
Non è un caso, infatti, che nei Paesi in cui si è compreso che i finanziamenti elevati fin dalle prime fasi inziali aumentano l’efficienza e limitano la dispersività, si registra il numero più elevato di “unicorni”, ovvero startup e scaleup che sono riuscite a raggiungere una valutazione pari o superiore a un miliardo di dollari ancora prima dell’entrata in Borsa, termine ormai sinonimo di successo. Basti pensare che il numero di unicorni in Usa è pari 662 startup, nel Regno Unito 37, in Germania 25, in Francia 25 e in Spagna 9 rispetto ai soli 2 unicorni italiani (Yoox e Scalapay).
Sembra quindi evidente la correlazione direttamente proporzionale tra l’ammontare dell’investimento fin dalle fasi iniziali della vita di una startup e il numero di unicorni. Sarebbe, dunque, necessario attuare anche in Italia investimenti inziali più ingenti, da una parte, e un minor detrimento delle valutazioni pre-money già nelle prima fasi dell’investimento permettendo uno sviluppo costante delle startup, così da aumentare il numero di unicorni nel Belpaese.
(Articolo scritto in collaborazione con Federica Albano, di Lca Studio Legale)