Gli inviti (generosi) del NextGen-Ue (o Recovery fund) sono corredati da una serie di raccomandazioni specifiche. E, per l’Italia, una di queste, e forse la più importante, sta nel risanamento del divario territoriale fra Nord e Sud.
ll mondo è bello perché è vario, dice un vecchio detto. Ed è vero: le diversità – a cominciare dalla famosa ‘biodiversità – sono un valore. Ma ci sono diversità che gridano vendetta, e una di queste sta nel famoso ‘dualismo’: il Mezzogiorno ha un reddito pro-capite che è poco più della metà di quello del Centro-Nord. Un divario che per tante e giuste ragioni deve essere colmato. Come si argomenterà, non per fare un favore al Sud, ma per fare un favore a tutti: al Sud, al Nord, all’Italia e all’Europa. La ‘questione meridionale’ è cosa antica, e sembrava avviata a soluzione mezzo secolo fa, quando, raccontano le cifre dei conti territoriali, la Cassa per il Mezzogiorno, nei suoi (pochi) anni migliori, riuscì a operare per accorciare il secolare ritardo del Sud rispetto al resto del Paese. Ma finita quella stagione, il divario rimase e si è andato allargando negli ultimi lu- stri. Allora, quid agendum?
Fortunatamente, tutti sono d’accordo: dalla Commissione Ue al Parlamento europeo, dal governo passato a quello presente, tutti concordano sulla necessità di dedicare più risorse al Sud d’Italia: approfittare di questa occasione unica – i fondi del NextGen-Ue – per superare quel dualismo che ha piagato dall’Unità ad oggi il nostro Paese. Certamente, ci sono state e ci saranno delle resistenze. Dopotutto, decenni di ingiustizia nella riparti- zione territoriale della spesa pubblica – una ripartizione che ha sistematicamente svantaggiato il Mezzogiorno e che si può rinvenire nelle cifre dei Conti pubblici territoriali e nei rapporti annuali della Svimez – hanno creato privilegi nelle regioni che sono state avvantaggiate da quella ripartizione. Fino a far talvolta agitare una ‘questione settentrionale’ che an- ch’essa data da lungo tempo nella storia d’Italia («Finis Langobardiae»: un articolo di Cesare Correnti su «La Perseveranza» del gennaio 1860 è forse la prima testimonianza di quella ‘questione’). E abbiamo visto talvolta riemergere quel concetto melmoso che – scrive Alfredo Canavero – vede «un Settentrione attivo, progredito ed operoso contrapposto a Roma capitale e a un Meridione parassitario, arretrato e indolente». Preme sottolineare che quando si parla di contrasto al dualismo, si parla di un gioco a somma positiva. Troppo spesso, fra ‘questione meridionale’ e ‘questione setten- trionale’ sembra di assistere a una contesa su chi vorrebbe una fetta più grossa della torta del reddito. Ma quello che vogliamo è far crescere la torta a beneficio di tutti. In economia c’è un concetto di ‘reddito potenziale’, cioè il reddito che si potrebbe ottenere in presenza di un pieno utilizzo di tutti i fattori di produzione. Ebbene, in un Paese dualistico come l’Italia è utile scindere territorialmente anche il reddito potenziale. Questa semplice esercizio farebbe emergere una non sorprendente verità: la differenza fra reddito potenziale e reddito effettivo è maggiore al Sud rispetto al Nord, proprio perché il Sud è più arretrato. Il Mezzogiorno, insomma, è un giaci- mento di crescita potenziale per il Paese. E scavando in questo giacimento, si attiverebbe domanda anche a beneficio del Nord, che troverebbe sbocchi di mercato interno per lungo tempo dormienti. E c’è dell’altro. Esiste anche un divario Italia-Europa. Da vent’anni e passa il nostro Paese cresce meno che il resto dell’Eurozona. Sono legati i due divari? Sì, perché l’Italia ha lasciato il Sud languire: vanghe e macchinari necessari a sfruttare il giaci- mento di cui sopra non sono mai entrati in campo. Il Sud è stato una palla al piede della crescita italiana e l’Italia è diventata una palla al piede della crescita europea. Di nuovo, quid agendum? Una grande stagione di inve- stimenti infrastrutturali, centrati sul Sud è oggi una precondizione per far uscire l’Italia dal disperante stallo di crescita in cui si dibatte da decenni. Ma c’è una precondizione alla precondizione. È facile predicare in favore degli investimenti nel Mezzogiorno. Ma per passare dalle ‘prediche inutili’ alle ‘prediche utili’ bisogna superare quegli ostacoli – burocratici, rego- lamentari, conflitti di competenze – che per molti amari decenni hanno impedito gli investimenti, a cominciare dall’utilizzo di quei fondi europei che il bilancio della Ue per anni ci ha messo a disposizione, nella commovente (e sempre delusa) speranza che noi li avremmo spesi. Si potrebbe pensare che, dato che siamo in emergenza, si potrebbe far ricorso a pro- cedure da ‘economia di guerra’, quando le fabbriche venivano requisite per trasformare “gli aratri in spade”. Ma noi abbiamo bisogno – anche se siamo in guerra contro il virus e la stagnazione – di misure di ‘economia di pace’, capaci di realizzare gli investimenti seguendo le best practices rinvenibili nell’esperienza di altri Paesi, così che, anche quando saremo tornati alla normalità, potremo contare su una macchina amministrativa efficiente e trasparente. Mario Draghi, per anni direttore generale del Tesoro, la macchina amministrativa la conosce come pochi, e sa che, nella lista delle cose da fare, al primo posto c’è quella ‘madre di tutte le riforme’ che è lo snellimento delle procedure di spesa. Investimenti, dunque. Non solo perché è la componente della domanda che fornisce il moltiplicatore più elevato (uno studio del Fondo monetario mostra come un aumento degli investimenti pubblici pari all’1% del Pil finisce per innalzare il Pil del 2,7%), ma anche perché, come risulta da altri studi, il moltiplicatore è ancora più elevato per gli investimenti nel Mezzogiorno (per non parlare del ‘moltiplicatore sociale’ che ne deriverebbe).