Il 21 dicembre il parlamento italiano, anticipando la tabella di marcia prevista fino a pochi giorni fa, ha respinto la ratifica della riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), con 184 voti contrari, 172 favorevoli e 44 astensioni. La ratifica parlamentare di Roma era l’ultimo tassello mancante per completare la riforma del cosiddetto Fondo salva-Stati, istituito nel 2012 per fronteggiare la crisi dell’euro.
Il Mes, comunque, resterà in piedi con le stesse regole e gli stessi limiti emersi in circa dieci anni di storia. La riforma, bocciata in aula da Lega e M5s, avrebbe reso più schematiche le condizioni sotto le quali il Mes avrebbe potuto prestare denaro agli Stati che ne avessero fatto richiesta (distinguendo criteri per l’accesso a due diverse linee di credito).
Allo stesso tempo, i fondi del Mes avrebbero potuto finanziare, “come ultima istanza”, il Fondo di risoluzione unico, uno strumento che interviene per sostenere le banche europee che si trovino in crisi e i cui contributori sono le stesse banche. Secondo il leader della Lega, Matteo Salvini, il principale vantaggio di aver respinto la riforma del Mes consisterebbe proprio nell’aver impedito i finanziamenti al Fondo unico di risoluzione. “Sul Mes la Lega non ha mai cambiato idea in vent’anni, è uno strumento inutile se non dannoso che porterebbe un lavoratore italiano a dover mettere dei soldi per salvare una banca tedesca”, ha detto Salvini commentando la bocciatura parlamentare.
L’intervento del Mes sul Fondo unico di risoluzione, come vedremo nel dettaglio, non avrebbe comportato alcuna spesa per le casse pubbliche italiane o degli altri stati membri.
Il Mes non regala denaro, neanche alle banche
Nel trattato di riforma del Mes è specificato che i prestiti effettuati in favore del Fondo unico di risoluzione avrebbero dovuto seguire il principio di “neutralità fiscale” nel medio termine. Un termine tecnico che esprime un concetto semplice: si presta senza nessuna entrata o uscita aggiuntiva di denaro pubblico. Questo perché il sistema finanziario, che contribuisce al Fondo unico di risoluzione, avrebbe successivamente restituito al Mes, e quindi agli stati membri, il denaro ricevuto (con gli interessi).
Non poter contare sull’eventuale appoggio del Mes riduce la capacità di reazione del Fondo unico di risoluzione. Alla fine di quest’anno si prevede che il Fondo unico avrà una dotazione di 77,6 miliardi di euro: il Mes avrebbe potuto prestare al fondo fino ad ulteriori 68 miliardi di euro, raddoppiandone quasi la capacità di risposta. Un Fondo unico di risoluzione con una più ampia dotazione potenziale avrebbe reso più esteso il suo raggio di intervento in caso di crisi bancarie gravi, riducendo le probabilità che lo stato membro presso il quale ha sede la banca in crisi debba subentrare direttamente nel salvataggio. Tuttavia, anche in assenza del credito offerto dal Mes, il Fondo unico di risoluzione continuerà ad esistere, svolgendo la sua funzione di pilastro per la costruzione dell’unione bancaria europea. Di fatto, il Mes è un ente intergovernativo al di fuori del diritto dell’Unione europea, pertanto appare un po’ forzato ritenere che da esso dipenda il buon funzionamento del Fondo unico di risoluzione, istituito invece dal Parlamento europeo.
Al di là delle finezze giuridiche, non è vero che il Mes riformato avrebbe comportato spese aggiuntive per l’Italia in caso di risoluzioni bancarie in altri Paesi.
Allo stesso tempo, non è vero che non esistano già strumenti europei per la risoluzione delle crisi bancarie: tuttavia, avranno un’arma in meno che ne dimezza quasi la “potenza di fuoco”.
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Mes, la mancata riforma non cambia i rischi sui Btp
Per quanto riguarda le conseguenze della mancata riforma del Mes per i prestiti agli Stati membri, i cambiamenti sono assai meno sostanziali. Qualora l’Italia avesse voluto chiedere un prestito al Mes, per ottenere denaro a interessi più bassi in scenari di crisi, si sarebbe dovuto ricorrere a un memorandum anche con Fondo salva-stati riformato. Nel dettaglio, la versione del Mes bocciata dal parlamento italiano distingueva due diverse linee di finanziamento: una per i Paesi con parametri economici più “virtuosi” e un’altra per quelli più indebitati. L’Italia avrebbe dovuto certamente ricorrere a quest’ultima, che però implica condizioni più stringenti per il Paese che chiede il prestito – solitamente, riforme correttive come tagli alla spesa pubblica. Per quanto questo meccanismo sia controverso, non è diverso da quello già in vigore e già utilizzato nel caso della crisi greca.
La determinazione dei parametri che avrebbero consentito un accesso più agevole ai fondi del Mes avrebbero, per alcuni, ufficializzato la distinzione fra creditori di serie A e di serie B. Nella sostanza, però, è difficile immaginare che l’Italia possa accedere ai fondi del Mes senza concordare misure economiche volte a tagliare il debito pubblico. Non aver ratificato la riforma del Mes, sotto questo aspetto, non sembra fare una grande differenza nello scenario di un possibile default italiano. E’ la stessa conclusione alla quale è giunta la Banca d’Italia, che in un suo approfondimento aveva dichiarato che “i prerequisiti per l’accesso ai fondi del Mes (prestiti e linee di credito precauzionali) rimarranno sostanzialmente invariati a seguito della riforma”.