Sono alcuni decenni che riaffiora questa urgenza di evader dalla pareti stagne di museo e galleria per addentrarsi in spazi meno addomesticati, adatti, più della città, ad accogliere e magari anche esprimere una pulsione profonda che costringe alcuni artisti a misurarsi esteticamente con la materia, l’origine e il cosmo. Giungendo talvolta a qualcosa di più della land art, o perlomeno a una sua versione più radicale. È il caso dello scultore statunitense Walter De Maria (1935-2013) che ha consegnato al deserto del New Mexico il suo pressoché irraggiungibile Lightning Field (commissionato da DIA e ultimato nel 1977): ‘il campo’ di 400 steli metallici – sei metri di altezza e disposti a regolari intervalli di sessansette metri – insegue i dislivelli lievi della pianura per disegnare un rettangolo che si è invitati a osservare da lontano e anche a percorrere in lungo e in largo.
L’opera da contemplare si fa allora esperienza e gesto, e lo spettatore diventa in qualche modo attore nel ‘campo’, che percorre secondo traiettorie che cambiano con la direzione del percorso, l’ora del giorno e il clima del momento. Il dialogo con le condizioni atmosferiche è al cuore di Lighning Field: la visita richiede in effetti una notte nel capanno attiguo, regala la percezione del deserto e del silenzio e, in caso di temporale, la visione elettrizzante dei lampi che si scaricano sulle punte di metallo. È difficile raccontare la poesia estrema di un lavoro che dei fenomeni naturali si fa ‘supporto costruttivo e sensoriale’ (Germano Celant, Domus, giugno 2011); difficile dire a parole un’opera che domanda al suo fruitore presenza fisica, partecipazione, interazione e intimità con il paesaggio. Un’opera quindi irripetibile, inesportabile, incorporata al paesaggio.
La costellazione è stata sistemata su quello che resta di un castello neo-gotico sull’isola di Pollepel, in un tratto ancora rurale del fiume Hudson. Quando giunge la notte, la costellazione si accende, sospesa sulle rovine e sull’acqua, misteriosa, poetica, e forse memore delle cosmogonie degli indiani Lenape che un tempo erano i soli abitanti della regione.
Per chi vive in città in tempi pandemici, sembrano lontani questi incontri tra forze elementari e ingegno umano. Eppure, a passeggiare a Milano con occhio vigile, se ne ritrovano le tracce in molte sculture, pubbliche e non solo. Non sembra forse il Grande Disco di Arnaldo Pomodoro (1972, Piazza Meda) un astro caduto sulla terra da un altro mondo? Se si va a spasso dalle parti del Cimitero Monumentale, La vita infinita di Kengiro Azuma (MU141, 2015), invita a soffermarsi sui rapporti tra pieno e vuoto, tra materia e quello che non lo è.
Ci si potrebbe spingere fino all’Hangar Bicocca dove si è accolti da La sequenza di Fausto Melotti (1981), le cui colonne architettoniche e musicali lasciano intravvedere un dialogo tra elementi ‘immateriali’ e il potente acciaio Coren dell’opera. In un giardino privato di Milano sono di recente giunte due sculture di Gio’ Pomodoro, un artista che spesso ha dialogato con lo spazio cosmico: lo dicono i titoli delle sue sculture, dai Soli agli omaggi a Keplero e a Galileo. Queste nuove presenze milanesi, Guardiano lunare e Lamo (1996), evocano gli astri e l’acqua in una sorta di corpo a corpo con il granito ruvido e il ferro artigianale del tagliapietre: un altro vivo esempio della fatale attrazione tra artisti e elementi, un altro monito a non perdere di vista istanze e urgenze della natura.