Recenti manifestazioni, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e altrove, hanno registrato la rimozione spontanea di statue dedicate a personaggi che offendevano diverse sensibilità politiche, etniche, religiose. Cristoforo Colombo, reo, secondo alcune interpretazioni, di avere aperto la via a usurpazioni e conquiste coloniali spesso efferrate, è spesso caduto dai suoi piedistalli e messo in deposito quando non malmenato.
Tra gli altri è scomparso così l’esploratore che gonfiava fieramente il petto vicino alla bella Coit tower di San Francisco, un edificio in verità segnato dall’impegno democratico e multiculturale dei suoi affreschi interni dedicati a storie di resistenza popolare alle violenze del potere e di un’altra crisi, quella del 1929. Nella Bristol inglese, artefice e testimone dell’iniquo ‘commercio triangolare’ – schiavi dall’Africa verso le Americhe zucchero e denaro in quantità di ritorno verso l’Europa – l’oggetto inviso al movimento
Black Lives Matter è invece la statua di Edward Colston: il bronzo del facoltoso ‘filantropo’ locale arricchitosi con il fiorente mercato viene buttato nel fiume.
Sul basamento rimasto vuoto, Marc Quinn, controverso artista della Young British Art (ora saggiamente entrato alla National Gallery) sistema nottetempo e senza curarsi di permessi pubblici la sagoma di una militante del movimento, Jen Reid, con pugno alzato. E’ il 15 luglio 2020, e a distanza di poche ore la forma tridimensionale di resina nera viene rimossa dalle autorità cittadine.
Al di là delle
doverose proteste per la morte di George Floyd, rimozioni, depredazioni e sostituzioni s’iscrivono nella storia lunga dell’iconoclastia, una pratica secolare che delle immagini coglie la dimensione tematica o ideologica, senza badare al loro eventuale contenuto artistico. Distrugge così al proprio passaggio le opere che ‘offendono’ di volta in volta fedi o idee delle comunità interessate. Come non ricordare le sculture e pitture religiose saccheggiate durante le guerre di religione del Cinquecento, in nome del credo ‘aniconico’ dei protestanti?
Oppure il nuovo paesaggio che si va disegnando in Inghilterra con la dissoluzione dei monasteri, puntellato dalle rovine di sontuose abbazie o edifici conventuali? E’ buona parte dell’arte gotica e medievale che in alcune regioni europee viene spazzata dallo scontro religioso. A grandi ondate, la collera degli uomini aggredisce i simboli di un potere diventato intollerabile, come quello della chiesa e della monarchia durante la rivoluzione francese. Mentre l’Ottantanove sfigurava da un lato i timpani di mille cattedrali e decapitava innumerevoli apostoli, Cristi, Marie e santi, si gettavano alle fiamme intere preziose collezioni che i proprietari – spesso aristocratici – non erano riusciti a mettere in salvo. Turbolenze politiche e arte non convivono agevolmente.
E tuttavia è nel tardissimo Settecento che nasce in Francia l’idea embrionale di patrimonio, tesa a delineare un territorio collettivo della bellezza e a promuoverne la salvaguardia e la conservazione. Eppure, senza ricordare ferite recenti, da Palmira ad altre violenze talebane, sappiamo troppo bene quali sono difficoltà e ostacoli che ovunque incontrano i progetti di un bene condiviso in mezzo a comunità spesso dilaniate.
Il destino degli oggetti d’arte viene così imbarcato nel corso spesso tumultuoso della storia, creando un contrasto acuto tra immutabilità delle immagini e vortice degli accadimenti che portano distruzione o dispersione e alterano radicalmente le mappe dell’arte. Si pensa a un’altra Rivoluzione, meno nota di quella francese ma certo non meno significativa. Quando scoppiò in Inghilterra nel 1642,
Londra era allora LA capitale dell’arte europea, piena di tesori inestimabili per lo più acquistati in Italia (trafugati da essa?), per volere dei sovrani Stuart, Carlo I in particolare. Compiuto il regicidio nel 1649, occorreva riempire le casse del nuovo stato repubblicano, e lo si fece offrendo le opere d’arte ai migliori offerenti; o meglio, in assenza di un preciso senso del valore e del gusto, svendendole. Alla volta dell’Ungheria di oggi, dei Paesi Bassi e della Francia se ne andarono centinaia di opere tra le quali spiccavano numerosi autori italiani, da Tiziano a Veronese e Tintoretto.
E ci vollero secoli perché Londra ritrovasse a fatica un qualche statuto di capitale artistica. Il romanzo delle collezioni non ha nulla da invidiare a quello scritto tra storia e politica e racconta anch’egli di svolte, cambiamenti repentini e scomparse misteriose. Accadde alla ricchissima raccolta del ministro Robert Walpole, offerta allo sguardo ammirato di uno ristretto pubblico aristocratico verso la metà del Settecento e infine venduta, grazie ai buoni uffici di James Christie – il fondatore della odierna casa d’aste: si trattava di rimediare ai debiti di gioco dello scapestrato nipote del ministro, e la felice acquirente non era altra che Caterina di Russia. L’appetito artistico della Zarina era del resto insaziabile, e nel 1772 la sovrana si aggiudicò anche la sterminata e raffinata collezione del facoltoso mercante-banchiere Pierre Crozat, con la mediazione, questa volta, del filosofo Denis Diderot….
I capitoli di questa storia si dipanano avventurosamente al ritmo delle grandi crisi, politiche ed economiche, e anche di quelle private, famigliari e sentimentali, che, tutte, registrano un’ accelerazione del subbuglio artistico: nei modi leciti del mercato oppure con le forme clandestine del furto o del trafugamento illegale, senza dire dei gesti iconoclastici sempre in agguato. Per quanto immutabili ed eterne, come recitano i libri di scuola, le opere d’arte vivono delle vite incerte, molteplici e irrequiete.
Recenti manifestazioni, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e altrove, hanno registrato la rimozione spontanea di statue dedicate a personaggi che offendevano diverse sensibilità politiche, etniche, religiose. Cristoforo Colombo, reo, secondo alcune interpretazioni, di avere aperto la via a usurpazi…