Anche i titoli di stato italiano hanno messo a segno un 5% di rialzo nel mese di novembre, in aggiunta al movimento di rialzo, anch’esso partito a metà ottobre. Il rally ha riassorbito completamente il calo estivo che indicava una perdita di fiducia dei mercati finanziari sul merito di credito dell’Italia. In particolare, il decennale italiano ha visto una diminuzione dei prezzi di circa il 7% da fine luglio, toccando i minimi il 19 ottobre, andando a ritestare i livelli che si erano visti a settembre e dicembre 2022 quando, complice le incertezze sulla finanziaria del nuovo governo Meloni, lo spread era salito e i rendimenti avevano toccato quasi il 5%. Solo nel mese di novembre, il BTP decennale ha visto un aumento del 5% circa dei prezzi, con rendimenti in calo che si attestano ora al 4% circa.
La riduzione dei rendimenti dei governativi italiani è legata a due fattori: 1) il giudizio positivo delle agenzie di rating, in particolare di Moody’s che, nel recente passato, era stata la più critica; 2) i dati sul rallentamento dell’inflazione negli Stati Uniti e in Europa che hanno comportato la tanto attesa pausa dei rialzi dei tassi da parte delle banche centrali.
Agenzie di rating sull’Italia
Il primo giudizio positivo per l’Italia è arrivato il 20 ottobre da parte di Standard&Poor, con la conferma del rating precedente (BBB) e outlook stabile, rimarcando, tuttavia, alcune criticità, ossia un rapporto debito/PIL che fa fatica a scendere, un disavanzo maggiore rispetto alle previsioni di primavera, incertezze sui tassi di crescita dell’economia. Successivamente sia DBRS il 27 ottobre che Fitch, il 10 novembre, hanno confermato i giudizi in essere. Ad ogni modo, la valutazione più temuta era quella di Moody’s che non aveva aggiornato il giudizio a maggio specificando che, dei paesi analizzati, l’Italia era l’unico a rischiare di perdere la valutazione di “investment grade”, ossia di paese di cui si ha ancora fiducia di poter investire nel debito pubblico. Circa un anno prima, infatti, Moody’s aveva peggiorato l’outlook (ossia le previsioni del trend di fondo) da stabile a negativo, sottolineando rischi quali le riforme strutturali, l’approvvigionamento energetico (si era in piena crisi del gas a seguito del conflitto Russia-Ucraina con rischi di razionamento delle forniture) e un deterioramento della sua solidità fiscale legata ad una crescita in rallentamento, maggiori costi di finanziamento e rischi sulla disciplina fiscale da parte del governo. Fortunatamente, il 17 Novembre, l’agenzia non solo ha confermato il suo rating ma ha anche innalzato l’outlook da negativo a stabile, motivandolo grazie ad una stabilizzazione dell’economia (attuazione del PNNR e riduzione dei rischi sulle forniture energetiche), la salute del settore bancario in grado di sostenere la crescita economica e le più favorevoli dinamiche sul debito pubblico.
Andamento inflazione e tassi
Il contributo principale alla riduzione dei rendimenti in Italia, tuttavia, è legato non tanto al giudizio delle agenzie di rating quanto all’andamento generale delle prospettive di inflazione in USA, in primis, e in Europa. Infatti, il 26 ottobre la BCE, per la prima volta dopo 10 rialzi consecutivi, ha deciso di non aumentare i tassi di interesse indicando che, in base ai modelli econometrici dell’istituto, i tassi attuali sono coerenti con il target d’inflazione al 2%, tendenzialmente raggiungibile nel 2025. Circa una settimana dopo anche la FED ha ribadito la decisione attendista di non innalzare ulteriormente i tassi di interesse, e anche non escludendo possibili ulteriori rialzi in futuro, ha indicato che la gran parte del lavoro è stata fatta, prevedendo un rallentamento dell’economia e un deterioramento del mercato del lavoro. Un ulteriore dato sull’inflazione USA in ottobre (3,2% rispetto al 3,7% di settembre), in rallentamento maggiore rispetto alle attese (3,3%) insieme a dati di una leggera contrazione (-0,1%) dell’economia dell’eurozona nel terzo trimestre hanno fornito ulteriori elementi per sostenere la tesi di un picco dei tassi già raggiunto e, potenzialmente, possibili tagli nel 2024, qualora il trend discendente dell’inflazione fosse confermato e aumentasse il rischio di debolezza della crescita economica mondiale. Già in ottobre il Fondo Monetario Internazionale aveva previsto un 3% di crescita del PIL mondiale nel 2023 (3,5% nel 2022) tagliando dal 3% al 2,9% le stime per il 2024, con una crescita delle economie avanzate dell’ 1,4% nel 2024. In particolare, la crescita della zona euro era stimata allo 0,7% nel 2023 e 1,2% nel 2024, con una recessione per la Germania (-0,5%) nel 2023 e un rimbalzo nel 2024 (+0,9%), mentre per l’Italia si prevedeva una crescita dello 0,7% sia nel 2023 che nel 2024. Riguardo all’inflazione le stime erano del 5,6% nel 2023 e del 3,3% nel 2024 per la zona euro; del 6% nel 2023 e del 2,6% nel 2024 per l’Italia.
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I movimenti dei tassi di interesse e soprattutto le aspettative per una politica economica meno restrittiva hanno, di conseguenza, supportato il mercato azionario che, circa una settimana dopo il minimo del mercato obbligazionario, ha iniziato una risalita di oltre il 12% dai minimi del 27 ottobre. La visione attuale del mercato è quella di un soft landing, nella quale si prevede solo un rallentamento della crescita economica ma non una recessione, grazie al calo dell’inflazione, che sostenendo i salari reali, possa sostenere la domanda di consumo. Ad esempio, UBS assegna una probabilità del 60% allo scenario di soft landing nei prossimi 12 mesi, stimando che i tassi sul decennale americano possano scendere al 3,5% con l’indice S&P500 visto a 4700 punti. Nelle sue ultime stime l’OCSE prevede una crescita del PIL negli USA dell’1,5% nel 2024 (dal 2,4% del 2023) e del PIL mondiale del 2,7% nel 2024 contro un 2,9% del 2023. Più debole la crescita in Europa prevista allo 0,9% nel 2024.
Indicazioni valide
Nell’ultimo articolo di fine luglio avevo indicato che “La strategia migliore è, da un lato acquistare obbligazioni/fondi di investimento con duration elevate, approfittando di rialzi dei rendimenti in particolari momenti”. Ebbene, proprio nel mese di ottobre abbiamo rivisto prezzi davvero favorevoli per l’acquisto di obbligazioni governative italiane e non, che solo un anno fa avevamo potuto cogliere. Tuttavia, rispetto ad un anno fa vi è una differenza sostanziale. Mentre nella 2022 i prezzi erano interessanti in termini assoluti ma si aveva poca visibilità sull’andamento prospettico dei tassi in futuro e dell’inflazione, nell’ultimo ribasso sono aumentati gli indizi in favore della fine del rialzo dei tassi e un calo definitivo dell’inflazione: l’economia era già in rallentamento, l’inflazione dimostrava un trend in calo, i tassi erano già stati aumentati ripetutamente. L’occasione per allungare le scadenze è stata davvero ghiotta e ha premiato coloro che hanno investito “approfittando di rialzi dei rendimenti in particolari momenti”.
Sul lato azionario nello stesso articolo del 28 luglio 2023 scrivevo “A chi non avesse acquistato su correzioni importanti (come consigliato nell’articolo del 23 ottobre 2022), sconsiglierei entrate importanti sull’azionario in questa fase”. Cosa è successo poi? Da fine luglio è partita una correzione sul mercato azionario di oltre il 10% su S&P500 (oltre il 12% sul Nasdaq) che, come abbiamo visto, si è arrestata a fine ottobre. Quando potrebbe esserci ancora una correzione di tale entità?
Il grafico sottostante mostra che, mediamente, negli ultimi 70 anni, correzioni dai massimi relativi di almeno il 10% avvengono con una frequenza di poco più di un anno. Effettivamente, nel 2023, l’unico ribasso del mercato azionario americano è stato quello tra febbraio e marzo che tuttavia è stato minore del 10%. E’ probabile quindi che avremo un simile movimento anche il prossimo anno.
Cosa fare adesso?
Il titolo di una celebre commedia di Shakespeare, “Molto rumore per nulla” (Much Ado About Nothing nell’originale), potrebbe applicarsi probabilmente a questa fase: sia le quotazioni del mercato azionario che quello obbligazionario sono ritornate agli stessi valori di fine luglio. Non è cambiato nulla? In verità sì, perché il mercato obbligazionario è molto probabile che abbia toccato il massimo dei rendimenti anche se, potremmo riavere una fiammata inflazionistica, come negli anni ’70 dopo una prima fase di calo, che costringerebbe le banche centrali a mantenere i tassi ufficiali “elevati per un periodo prolungato” (un mantra che le stesse banche centrali ripetono da mesi) o addirittura al rialzarli ulteriormente.
Riguardo al mercato azionario, tornato quasi sui massimi storici, in realtà le preoccupazioni potrebbero essere maggiori adesso rispetto a luglio.
Il grafico mostra come, storicamente, i mercati azionari vadano in recessione (ossia correzioni maggiori del 20% dai massimi) dopo che la FED inizia a tagliare i tassi. Le previsioni dello scorso anno indicavano un serio rischio di recessione nel 2023. C’è sicuramente stato un rallentamento in Europa e la stessa Germania è andata in recessione ma gli Stati Uniti, il vero motore dell’economia mondiale, hanno sorpreso per i suoi tassi di crescita. Storicamente, quindi, i tagli dei tassi d’interesse arrivano quando ci si rende conto che l’economia è entrata in recessione oppure si è scatenata una crisi finanziaria (ad esempio quella del 2008 innescata dei mutui subprime) ed è necessario intervenire attraverso una politica monetaria adeguata. Il mercato azionario è ben impostato al rialzo ancora per il mese di dicembre, in linea anche con il suo andamento stagionale. Tuttavia, difficile ipotizzare un mercato azionario spumeggiante nel 2024 in questa fase. Dicembre è il mese in cui le varie case di investimento iniziano a far circolare i report con le previsioni per il nuovo anno. Vedremo nelle prossime settimane l’umore degli strategist di mercato.