Lo scorso20 gennaio si è insediato il più vecchio presidente americano della storia, Joe Biden, 78 anni. Lo sarebbe stato anche Trump, con i suoi 74 anni. A un eventuale secondo man- dato Biden si presenterà alla venerabile età di 82 anni. Putin e Xi Jinping, i leader di Russia e Cina, al confronto, sono dei ragazzi: rispettivamente 68 e 67 anni. Tutti vengono dal Primo dopoguerra: il piano Marshall, la Guerra fredda. Un’altra era. Nell’anno dell’innovazione accelerata, dell’industria 4.0, della piccola rivoluzione tecnologica nelle case di tutti, del trionfo di internet e delle videochiamate, dell’ecommerce e del vaccino sviluppato in sei mesi, una buona parte del governo del mondo è affidato a persone nate “ere geologiche” fa.
Mentre gli strategist di tutti i settori pubblicano paper su come conquistare la Gen Z (se non già quella successiva, la Generazione Alpha, ovvero i nati dal 2011 in poi), il mondo si avvia verso una longevity economy: ovvero verso una economia rappresentata e al servizio di una popolazione mondiale sempre più matura. La generazione dei baby boomer, che attualmente rappresenta la backbone della nostra popolazione, non è forse la più forte ma è certamente quella che ha vissuto e si è saputa adattare a più ere: la ricostruzione, il boom economico, le rivoluzioni tecnologiche, restando sempre coinvolta e co-protagonista. E ora affronta anche la rivoluzione della longevità. Nel mondo attualmente ci sono circa 1,7 miliardi di persone che hanno più di 50 anni: nel 2050, il loro numero dovrebbe raddoppiare, toccando i 3,2 miliardi. Nel frattempo, la popolazione mondiale sarà cresciuta dai circa 7 miliardi di oggi ai 9 miliardi, per poi flettere (attorno al 2060) e tornare gradualmente verso le attuali dimensioni, poco dopo la fine del secolo (2100). I numeri dell’Occidente ci dicono che l’economia della longevità è un dato di fatto per i nostri paesi.
Eppure l’invecchiamento è da molti considerato alla stregua di una piaga del mondo. “Senectus ipsa est morbus”, diceva già Terenzio Afro, intellettuale romano di oltre 2000 anni fa: la vecchiaia è per sè stessa una malattia. Ovviamente l’invecchiamento ha le sue con- troindicazioni, ma anche molti tratti positivi e interessanti. Intanto per la sostenibilità del pianeta. Una specie simpatica e dinamica, ma certamente infestante come quella dell’Homo Sapiens, è meglio che si autolimiti, sia nella quantità che nella qualità della sua presenza. Ma l’allungamento della vita produce ben altri mutamenti per le generazioni ed i singoli individui. A partire dalla ridefinizione dell’età biologica: secondo recenti studi di gerontologia, un 65enne di oggi ha la forma fisica e cognitiva di un 40-45enne di 30 anni fa ed un 75enne quella di un individuo che aveva 55 anni nel 1980. Questo genera un impatto sulla vita attiva dell’individuo. La produttività individuale in una prospettiva di vita estesa aumenta e non di poco: Andrew Scott, docente di economia alla London School of Economics, nel suo libro sugli effetti dell’invecchiamento (100 Years Life, Bloomsbury, 2016) afferma che la vita produttiva di una persona che vive fino a 100 anni quasi raddoppia rispetto a quella di chi vive fino a 70: 220mila ore di lavoro circa, anziché 120mila circa. Un secondo aspetto, banale, ma importante: vivere più a lungo richiede più risorse: ciò comporta modifiche profonde del classico modello di “life cycle” studiato da Modigliani negli anni ‘50. Ovvero che noi ci muoviamo su un ciclo di consumo e risparmio che vede una lunga fase di accumulo (durante la vita attiva) seguita da una fase di decumulo in età pensionistica, a mantenere il proprio stile di vita. Nel mondo della longevità, non solo il ciclo del decumulo viene spostato in avanti, ma si trasforma in una serie di cicli sfalsati di accumulo e decumulo parziale: magari in corrispondenza di lavori e carriere diverse, in diversi stadi della propria vita o di quella dei nostri cari. Questa maggiore complessità rende le generazioni mature di oggi più sensibili a un pensiero di lungo periodo rispetto alle generazioni più giovani. Sembra un paradosso, ma quando si studia da vicino il singolo progetto di vita (e non i macro-temi un po’ astratti e valoriali del futuro) si nota che la sensibilità della popolazione matura verso la progettazione futura è spesso superiore a quella della popolazione giovane. Un pensiero di medio-lungo periodo più diffuso fra la popolazione matura cambia anche il paradigma classico di asset allocation. La vecchia formula americana per stimare la quota di azioni in un portafoglio (ovvero quota di azioni nel portafoglio uguale a 100 meno l’età dell’investitore) sembra da rivedere. L’asset allocation dovrebbe invece allinearsi ai cicli alternati della nuova longevità, servendo i bisogni di lungo periodo (pensionamento), ma anche i bisogni di investimento/decumulo provvisori.
Un ripensamento profondo del ciclo di creazione e rinnovo delle proprie risorse, sia materiali sia immateriali, rompe definitivamente anche il ciclo classico della vita delle generazioni precedenti: formazione – lavoro – pensione. E con essa anche la linearità del sistema produttivo. La longevità in fondo mette più in parallelo le generazioni, le fa condividere un tempo terreno maggiore. Questo rende potenzialmente più fruttuoso lo scambio intergenerazionale. Fateci caso, oggi ci sono – malgrado le giuste specificità generazionali – meno distanze di riferimenti culturali fra generazioni. Questo rende opportuna una interazione più stretta fra le generazioni. Anche nella gestione dei patrimoni famigliari. Eventuali passaggi generazionali possono essere pensati come processi di medio-lungo periodo. È opportuno allenare i figli alla gestione del denaro famigliare controllando al contempo l’evoluzione delle loro capacità (spesso questa co-gestione e training non viene messa in atto). Allo stesso tempo induce le famiglie a “nuove” forme di supporto intergenerazionale: il “vecchio” schema di passaggio di patrimonio famigliare fra genitori settantenni e figli 30-40enni che potevano usare l’eredità per lanciare o consolidare il proprio progetto di vita non c’è più. Già oggi si assiste semmai a passaggi di eredità fra genitori novantenni o oltre e figli almeno sessantenni. Ipotizzare che sia l’eredità lo strumento di supporto ai figli è un pensiero superato. Al limite lo sguardo della progettualità inizia a traguardare oltre i figli, verso il supporto ai nipoti. Non è solo un salto generazionale. Per il wealth management, ad esempio, è anche un ritorno alla costruzione e difesa di un patrimonio famigliare che trascende le singole generazioni. La longevità, ci riporta all’antico, ma in forma estremamente moderna.