In linea di principio, si ritiene generalmente qualificante per una partecipazione il principio generale della libera trasferibilità della partecipazione, di cui all’art. 2469 c.c. L’articolo citato prevede che le azioni e le quote di partecipazione nel capitale di una società a responsabilità limitata sono liberamente trasferibili, salve le limitazioni derivanti dalla legge (c.d. limiti legali) o dalla volontà delle parti (c.d. limiti convenzionali).
I principali limiti legali alla circolazione delle partecipazioni in società rappresentate da azioni sono previsti nel Codice civile e sanciti dall’art. 2343, comma 3, c.c., dall’art. 2343-quater, comma 4, c.c., dall’art. 2345, comma 2, c.c. e dall’art. 2437-bis, comma 2, c.c.
In estrema sintesi, il comma 3 dell’art. 2343 c.c. ed il comma 4 dell’art. 2343-quater c.c. fissano il principio per cui sono inalienabili le azioni emesse a fronte di conferimenti in natura fintanto che non è avvenuta la valutazione ivi prevista da parte degli amministratori; l’art. 2345, comma 2, c.c. prevede invece che le azioni alle quali è connesso l’obbligo dei soci di eseguire prestazioni accessorie non consistenti in denaro devono essere nominative e sono trasferibili solo con il consenso degli amministratori. Da ultimo, a norma dell’art. 2437-bis, comma 2, c.c. le azioni per le quali è esercitato il diritto di recesso non possono essere cedute.
Come anticipato, se d’un canto il Codice civile prevede direttamente i limiti alla circolazione delle partecipazioni, d’altro canto l’art. 2355-bis c.c. legittima i soci – quindi, indirettamente – a prevedere ne “lo statuto” di una società di capitali specifiche clausole finalizzate a “sottoporre a particolari condizioni il […] trasferimento” delle azioni e fissando, allo stesso tempo, i limiti di tale potere dell’autonomia privata.
Quanto sinora esaminato assume particolare interesse se raffrontato al tema della gestione della proprietà e dell’organizzazione del patrimonio delle business families. Infatti, la previsione di tali aspetti in una holding di famiglia, ovvero i) la circolazione delle quote proprietarie o delle azioni e, ii) la tutela dei proprietari e dell’oggetto della proprietà, concorrono a delineare le modalità di gestione di un corretto passaggio generazionale e di una corretta governance delle business families.
Esempi di utilizzo di clausole specifiche nelle holding di famiglia
Assumendo come riferimento una holding di famiglia a forma societaria S.r.l., e supponendo ai fini dell’illustrazione di trattarsi di una holding controllata totalitariamente dal capostipite o da più soci fra loro consanguinei, lo statuto della holding S.r.l., in virtù dell’ampia autonomia concessa dall’ordinamento a tale tipo di società, può prevedere che le quote circolino soltanto in capo ai membri consanguinei della famiglia, di solito i discendenti del fondatore.
In base al citato principio, i diritti di prelazione possono spettare, in ordine i) ai membri del nucleo familiare, ovvero del ramo di famiglia (insieme degli ascendenti e discendenti del socio); ii) qualora nessuno dei suddetti soggetti intendesse esercitare i diritti di prelazione, questi spettano agli altri soci consanguinei; iii) qualora nessuno dei suddetti soggetti intendesse esercitare i diritti di prelazione, questi spettano in ultima istanza agli altri consanguinei residui, eventualmente per stirpes; iiii) qualora infine nessuno esercitasse il diritto di prelazione, la quota non potrebbe essere trasferita. In tale ultimo caso, al socio impossibilitato a trasferire la propria quota potrebbe essere riconosciuto il diritto di recesso.
Il diritto di recesso, oltre ai casi previsti dalla legge, può essere previsto a tutela del socio che intendesse cedere la propria quota ai consanguinei ma subisce un regime di diritti di prelazione particolarmente restrittivi, come nei casi sopra descritti. In tali casi occorre attribuire il diritto di recesso al socio che non riesce a cedere le proprie quote. Il valore di liquidazione della quota del socio sarà commisurato a un fair value, comprensivo quindi del valore di avviamento della società o del patrimonio sottostante.
Lo statuto della holding può altresì prevedere che il socio portatore del diritto di prelazione sia sottoposto al gradimento degli altri soci per essere ammesso alla società. Questo tipo di clausola non può prevedere che il gradimento sia espresso ad nutum, bensì deve prescrivere adeguata motivazione. Nella maggior parte dei casi viene quindi richiesto al candidato socio un requisito di esperienza o competenza nel settore, di comprovata abilità gestionale, o comunque determinate qualità personali o professionali.
Fra le altre clausole potenzialmente applicabili si menzionano le clausole di covendita, che si suole distinguere in due categorie: i patti di trascinamento o clausole di drag along e i patti di accodamento o clausole di tag-along.
La clausola di drag along attribuisce – usualmente – al socio di maggioranza (socio trascinatore), che venda l’intera o una parte predefinita della sua partecipazione, il diritto di obbligare o “trascinare” nell’operazione di alienazione anche le partecipazioni dei soci di minoranza (soci trascinati) alle medesime condizioni negoziate per sé stesso.
Invece, il patto di accodamento o clausola di tag-along attribuisce – usualmente – ad alcuni soci (usualmente di minoranza) il diritto di co-vendere una parte della propria partecipazione proporzionalmente uguale a quella posta in vendita da altri soci (usualmente il/i socio/i di maggioranza) e alle stesse condizioni da questi negoziate con il cessionario.
In conclusione, ben emerge come l’architettura dei diritti del socio della holding di famiglia permette di disegnare la mappa della circolazione della proprietà all’interno della famiglia imprenditrice, nonché della sua governance in modo molto flessibile ed articolato.