Con la risposta a interpello n. 401 del 2 agosto 2022, l’Agenzia delle entrate è tornata ad occuparsi di trust, pronunciandosi sul caso in cui il disponente aveva trasferito al trustee delle partecipazioni in società di capitali, tra cui, in particolare, una quota di partecipazione in una società a responsabilità limitata (“Alfa”) precedentemente rivalutata ai sensi dell’art. 5 della legge n. 488/2001. La partecipazione veniva successivamente alienata dal trustee in piena aderenza con gli obiettivi del trust tra i quali, appunto, quello della cessione dei titoli partecipativi a terzi.
Per quanto qui d’interesse è utile ricordare come la rivalutazione fiscale delle partecipazioni rappresenta un meccanismo previsto dal legislatore al fine di incentivare la circolazione delle imprese, a mezzo del quale il venditore – qualora la partecipata non sia una società quotata e non sia detenuta in regime di impresa – ottiene una apprezzabile riduzione dell’imposizione reddituale sul capital gain realizzato, soggetto ordinariamente a imposta sostitutiva nella misura del 26%. Infatti, avvalendosi del regime di cui all’art. 5 della L. n. 448/2001, è possibile rivalutare a fini fiscali il valore della partecipazione (risultante da apposita perizia) versando un’imposta sostitutiva inferiore (dell’11%, nel caso della risoluzione in commento). In tal modo, il valore “affrancato” costituirà il nuovo costo fiscalmente riconosciuto, comprimendo il differenziale positivo eventualmente emergente dal successivo trasferimento delle partecipazioni, soggetto ad aliquota del 26%.
Più in particolare, scopo del trust oggetto di istanza di interpello era:
- da un lato, quello di realizzare un “definitivo ed irrevocabile distacco” del disponente dalle partecipate – escludendo qualsiasi possibilità per il medesimo di interferire nella gestione societaria mediante l’attribuzione esclusiva di tutti i diritti sociali afferenti le predette partecipazioni al trustee;
- dall’altro, quello di vendere a terzi le quote in esso conferite, garantendone al beneficiario (il disponente stesso ovvero, in caso di sua premorienza, gli eredi e il coniuge del medesimo) la massima valorizzazione possibile.
Sulla disciplina dei redditi prodotti dal trust l’atto istitutivo prevedeva inoltre che:
- durante la vita del trust tutti i redditi dei beni in esso vincolati fossero “inderogabilmente trasferiti” ai beneficiari finali;
- i dividendi distribuiti durante la vita del trust da parte delle partecipate fossero attribuiti ai beneficiari al termine della vita del trust;
- fosse costituita una rendita annuale pari al 50% dei dividendi annuali che eventualmente le società conferite deliberassero di distribuire;
- in caso di cessione delle quote che non esauriva lo scopo del trust, in luogo dell’erogazione della rendita di cui al precedente punto, il trustee avrebbe dovuto erogare al disponente/beneficiario una rendita annuale, in quote costanti e avuto riguardo alla durata del trust (stabilita in 5 anni), del 10% del complessivo corrispettivo di cessione acquisito dal trustee, al netto delle imposte dovute.
Le questioni poste dall’istante all’Agenzia delle entrate
In relazione alla fattispecie considerata, l’istante poneva all’Agenzia delle entrate varie questioni inerenti il regime fiscale del trust così costituito; nel dettaglio:
- se il trust fosse qualificabile come “trasparente”;
- quale fosse il regime impositivo dei dividendi distribuiti dalle società al trust;
- se il beneficiario potesse assumere il costo fiscale come rideterminato a seguito della rivalutazione nella determinazione del capital gain conseguente alla cessione, da parte del trust, delle partecipazioni;
- se l’attribuzione da parte del trustee al beneficiario dei dividendi distribuiti dalle società e del corrispettivo derivante dalla cessione della partecipazione costituisse fattispecie imponibile ai fini dell’imposta sulle successioni e le donazioni.
Le due tipologie di trust
Per mera completezza giova osservare che ai fini dell’imposizione sui redditi si individuano due principali tipologie di trust:
(i) trust senza beneficiari individuati (trust opaco);
(ii) trust con beneficiari individuati (trust trasparente).
Il trust opaco è quello che non prevede l’individuazione di beneficiari che siano destinatari – in base ad un automatismo, senza che residui alcuna sfera di discrezionalità da parte del trustee nelle decisioni concernenti le erogazioni – dei flussi reddituali prodotti dal trust medesimo. Nell’ipotesi di trust opaco, cioè senza beneficiari individuati, il trust sconterà l’imposizione sui redditi prodotti.
Quando invece sono individuati, nell’atto istitutivo o anche successivamente, dei beneficiari titolati a ricevere i redditi del trust, questo si comporterà come una entità trasparente ai fini fiscali e i suoi redditi saranno immediatamente imputati, appunto per trasparenza ed indipendentemente dalla percezione, in capo ai beneficiari indicati. In questi casi, soggetti all’imposizione sul reddito sono dunque direttamente i beneficiari, similmente a quanto avviene per i soci di società di persone.
La soluzione dell’Agenzia delle entrate
Orbene, concentrando l’attenzione sulla risposta dell’Agenzia attinente alla corretta determinazione del capital gain tassabile che, per effetto della precedente rivalutazione operata dal disponente, si verrebbe a determinare come differenza tra il corrispettivo percepito dal trustee e il costo fiscalmente rivalutato della partecipazione ceduta, mette conto osservare che la conclusione dell’Agenzia sembra invece ritenere ininfluente ai fini della determinazione dei redditi la rideterminazione del costo fiscale delle partecipazioni, legittimamente perfezionata dal disponente anteriormente all’istituzione del trust.
La soluzione fornita dall’Agenzia delle entrate è probabilmente “viziata” dall’equivoco di fondo con cui il quesito è stato posto dal contribuente, che avrebbe confuso il soggetto obbligato al pagamento dell’imposta sostitutiva sui capital gain derivanti dalla cessione delle partecipazioni, che nel caso specifico (come correttamente ricostruito dall’Agenzia) sarebbe il trust e non il beneficiario.
La tassazione “per trasparenza”, in capo al beneficiario, avrebbe invece per oggetto i dividendi distribuiti medio tempore dalle società partecipate dal trust. Da cui, appunto, la risposta probabilmente scontata per cui il beneficiario non potrebbe tenere conto del valore della partecipazione rivalutata perché la plusvalenza realizzata con la cessione della partecipazione in Alfa costituisce un reddito diverso ai sensi dell’art. 67, comma 1, del Tuir, da assoggettare ad imposizione sostitutiva nella misura del 26% in capo al trust e che non concorre alla formazione del reddito complessivo dell’ente ai sensi dell’art. 143 del Tuir e non rappresenta, quindi, un reddito da imputare per trasparenza al disponente/beneficiario.
Così in particolare si è espressa l’Agenzia, secondo cui “ai fini della determinazione della predetta plusvalenza, non potrà essere utilizzato il valore rideterminato ai sensi dell’articolo 5 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, della partecipazione in Alfa, da parte del beneficiario anteriormente alla costituzione del trust”.
Questa lettura così argomentata della risposta è l’unica coerente con i precedenti dell’Agenzia delle entrate secondo cui, qualora il trasferimento dei beni in trust abbia ad oggetto titoli partecipativi, il trustee acquisisce l’ultimo costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione (cfr. circ. 48/E del 2007). Allora dunque il trust – e non il beneficiario – dovrebbe poter acquisire il valore delle partecipazioni rivalutate dal disponente. Diversamente opinando, si contravverrebbe al principio di neutralità, ai fini delle imposte dirette, dell’atto di dotazione di trust.
Il parere dei giudici di legittimità
Infatti, come osservato dai giudici di legittimità (v., ad es., sentenza n. 16701/2019 della Corte di Cassazione), l’atto di dotazione del trust determina esclusivamente l’effetto di destinare alcuni dei beni del disponente a un determinato fine, mediante intestazione meramente formale degli stessi al trustee e attribuzione al medesimo di poteri gestori circoscritti e mirati allo scopo della segregazione patrimoniale. In altri termini, l’apposizione del vincolo comporta solo, dal lato del disponente, una auto-restrizione del potere di disporre dei propri beni e, dal lato del trustee, un’attribuzione patrimoniale meramente formale, transitoria, vincolata e strumentale e, quindi, di natura non realizzativa.
Sul piano tributario la natura non realizzativa dell’atto di disposizione implica che, salvo il caso in cui il disponente conferisca in trust beni appartenenti all’impresa di cui è titolare – ove la destinazione dei beni stessi a finalità extra-imprenditoriali comporta, come noto, il realizzo, in capo al disponente-imprenditore, di componenti positive di reddito – e salvo il ricorrere di ipotesi fiscalmente realizzative previste espressamente da specifiche disposizioni normative in chiave antielusiva (quale, ad esempio, l’apporto di attività finanziarie in trust con trasferimento delle medesime in un rapporto amministrato o gestito diverso da quello di provenienza), l’apposizione del vincolo sui beni (apporto dei beni in trust), consistendo in una mera segregazione degli stessi non genera, in assenza di corrispettivo, materia imponibile ai fini dell’imposizione diretta e debba necessariamente essere caratterizzata da neutralità fiscale con conseguente applicazione, quale suo indefettibile corollario, del principio della «continuità dei valori fiscali» dei beni medesimi nel passaggio dal disponente al trustee.
Il valore affrancato
La continuità dei valori fiscali non può prescindere dal riconoscimento del nuovo valore “affrancato” in applicazione dell’art. 5 della L. 488/20014 quale costo fiscalmente riconosciuto in capo al trustee. Laddove infatti si disconoscesse l’efficacia della rivalutazione precedentemente operata dal disponente, si darebbe luogo a potenziali duplicazioni di imposta che la continuità dei valori fiscali è volta invece a scongiurare. Duplicazione che, nel caso specifico, verrebbe a determinarsi in conseguenza dell’assoggettamento dei medesimi valori (quelli “affrancati”) dapprima all’imposta sostitutiva di cui all’art. 5 della L. n. 448/2001 (in misura pari, nel caso specifico, all’11%) e poi, in sede di cessione della partecipazione, all’imposta sostitutiva del 26% ex art. 5 del d.lgs. 461/1997.
Si ritiene peraltro utile osservare che il trust in oggetto rientrerebbe astrattamente nel novero dei soggetti titolati a beneficiare della disciplina della rideterminazione del costo fiscale delle partecipazioni non quotate. Da cui pare difficile immaginare che la risposta dell’Agenzia fosse motivata dal rischio di un potenziale aggiramento delle norme in materia di rivalutazione.
A supporto della ricostruzione effettuata – volendo dunque “derubricare” la risposta in commento come frutto della imprecisa richiesta del contribuente piuttosto che ritenere essa rappresenti un nuovo orientamento sulla fiscalità dell’atto di dotazione di trust – depone anche la circolare n. 34/E del 20 ottobre 2022, appena resa pubblica nella sua versione definitiva, ove specificamente si afferma che “(n)el caso di apporto al trust di beni diversi da quelli relativi all’impresa, in assenza di corrispettivo, non si genera materia imponibile, ai fini della imposizione sui redditi, né in capo al disponente non imprenditore né in capo al trust, sempreché lo stesso non si qualifichi commerciale”.
Conclusioni
Il fisco ribadisce dunque la neutralità dell’atto di dotazione di trust ai fini dell’imposizione diretta, con la conseguente necessità di riconoscere la continuità dei valori fiscalmente riconosciuti dei beni tra disponente e trustee; non ci sarebbe motivo a pensare diversamente laddove tali valori siano il frutto di una rivalutazione fiscale precedentemente e legittimamente perfezionata dal disponente.
(Articolo scritto in collaborazione con Damiano Di Vittorio, Gattai, Minoli, Partners)