Pir: l'Agenzia chiarisce gli strumenti ammissibili nei piani individuali

Con le risposte a interpello n. 382 e 383 del 12 luglio scorso, l’Agenzia delle entrate ha fornito rilevanti chiarimenti sulla tipologia di investimenti che possono essere inseriti nei piani individuali di risparmio a lungo termine (Pir), escludendo l’applicabilità del regime agevolativo Pir per gli investimenti realizzati mediante (i) contratti di associazione in partecipazione (Ris. 382) e (ii) e strumenti dotati di diritti patrimoniali rafforzati (cosiddetto “carried interest”) (Ris. 383).
Il regime agevolativo dei Pir
Come noto, la normativa sui Pir garantisce l’esenzione da imposta di successione, nonché un regime di esenzione Irpef per tutti i redditi di capitale e diversi derivanti dall’investimento in piani di risparmio a lungo termine effettuati da persone fisiche residenti in Italia, nonché dagli enti di previdenza obbligatoria e dalle forme di previdenza complementare. In termini generali, l’applicazione del regime Pir consente di fruire dell’esenzione dalla tassazione ordinariamente prevista sui redditi finanziari derivanti dagli investimenti inseriti nel piano, entro specifici limiti quantitativi (per i Pir alternativi euro 300 mila annui fino a complessivi 1,5 milioni), a condizione che gli investimenti siano detenuti (ossia gestiti da un punto di vista fiscale) da un intermediario finanziario residente (tipicamente una società fiduciaria) per un periodo di tempo minimo (5 anni, cosiddetto holding period) e nel rispetto di alcune condizioni di investimento stabilite dal legislatore (vincolo di composizione del portafoglio, limite di concentrazione e limite di liquidità).
Con riferimento in particolare ai Pir cosiddetti alternativi, affinché i requisiti di legge siano integrati è necessario che per almeno due terzi dell’anno solare non meno del 70% del portafoglio sia investito, direttamente o indirettamente, in (a) strumenti finanziari, anche non negoziati, emessi o stipulati con imprese fiscalmente residenti nel territorio dello Stato o in Stati membri Ue/See con stabili organizzazioni nel territorio dello Stato, diverse da quelle inserite negli indici Ftse Mib e Ftse Mid Cap della Borsa italiana, o in indici equivalenti di altri mercati regolamentati esteri, (b) prestiti erogati alle predette imprese, nonché (c) crediti delle medesime imprese.
In entrambe le risposte l’Agenzia evidenzia che, al fine di valutare l’ammissibilità dell’investimento alla disciplina Pir, occorre far riferimento alla definizione di “strumento finanziario” rinvenibile nel Tuf (da considerarsi in ogni caso come definizione “aperta”), nonché verificare la coerenza della forma giuridica dell’investimento con la ratio della normativa Pir, ossia canalizzare il risparmio delle famiglie verso la cosiddetta economia reale italiana.
I contratti di associazione in partecipazione e cointeressenza
Nella risposta n. 382 l’Agenzia nega la possibilità di includere in un Pir alternativo gli investimenti realizzati mediante contratti di associazione in partecipazione e cointeressenza, rilevando che la locuzione “strumenti finanziari” vada assunta in conformità alla più restrittiva accezione civilistica e dunque non possa includere i contratti non cartolarizzati, quali quelli di associazione in partecipazione e di cointeressenza, tenuto conto che trattasi di accordi conclusi tra singolo associante e singolo associato e non presentano i caratteri della standardizzazione, divisibilità e negoziabilità, tipici degli strumenti finanziari.
La risposta dell’Agenzia delle entrate trova altresì conforto in un parere reso dal Mef, il quale rileva che, nonostante la disciplina fiscale applicabile alla remunerazione prevista per tali contratti sia la medesima di quella relativa ai proventi di natura finanziaria derivanti dalla partecipazione in società, deve comunque darsi preminente rilievo al fatto che detti contratti non costituiscono né strumenti finanziari, né prestiti né crediti, derivando da ciò la loro non ammissibilità al regime agevolativo Pir.
Gli strumenti con diritti patrimoniali rafforzati (cosiddetti carried interest)
Con riferimento invece agli strumenti finanziari dotati di diritti patrimoniali rafforzati (cosiddetto carried interest), vale ricordare come l’art. 60 del decreto-legge n. 50/2017 abbia introdotto una presunzione ope legis secondo cui, al verificarsi di determinate condizioni, i proventi derivanti da azioni, quote o strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati si qualificano a fini fiscali come redditi di natura finanziaria.
Tale presunzione è stata introdotta al fine di chiarire definitivamente le incertezze degli operatori in ordine alla qualificazione reddituale di detti proventi generata dal duplice ruolo rivestito dal manager (amministratore o dipendente, in quanto tale potenzialmente titolare di reddito di lavoro dipendente o assimilato) da un lato, e azionista/quotista (in quanto tale potenzialmente titolare di redditi di natura finanziaria) delle società o dell’Oicr dall’altro.
Nella risposta n. 383, l’Agenzia delle entrate evidenzia come le due discipline agevolative perseguano finalità differenti, il regime Pir intendendo canalizzare il risparmio delle famiglie verso l'economia reale italiana, mentre la disciplina del carried interest mirando ad allineare gli interessi dei dipendenti/manager di Sgr o di altre società a quelli dei quotisti degli Oicr o degli azionisti delle società.
Ciò posto, l’Agenzia delle Entrate, andando oltre il tenore letterale della norma e superando quanto precisato in termini generali nella circolare n. 25/2017, nega la possibilità di includere tra gli investimenti ''rilevanti'' ai fini del regime Pir gli strumenti finanziari dotati di diritti patrimoniali rafforzati, non avendo detti strumenti caratteri e finalità compatibili con la normativa Pir. Più in particolare, secondo l’Agenzia, la scelta di investire nella società/Oicr cui il soggetto è legato, direttamente o indirettamente, da un rapporto di lavoro, non sarebbe coerente con la finalità della normativa sui Pir che intende invece favorire l'afflusso di capitale di rischio all'intera economia reale di mercato.
Anche in tal caso, la risposta dell’Agenzia trova conforto in un parere reso dal Mef, il quale ha evidenziato che gli strumenti aventi diritti patrimoniali rafforzati hanno la finalità di allineare gli interessi dei manager a quelli degli investitori, senza quindi alcuna sollecitazione all’investimento all’esterno della struttura di investimento, mentre la normativa Pir è volta a incentivare gli investimenti nell'economica reale da parte di soggetti (le famiglie) che non effettuerebbero detti investimenti in assenza di siffatta disciplina.
Secondo il Mef, poiché coloro cui vengono attribuiti strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati sono soggetti che operano professionalmente nei mercati finanziari e acquisiscono tali strumenti proprio in virtù dell’attività professionale svolta, riconoscere a tali soggetti il regime di favore Pir non sarebbe coerente con la finalità del regime Pir di incentivazione all’investimento nell’economia reale italiana.
(Articolo scritto in collaborazione con Sabrina Tronci, studio Di Tanno Associati)
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