Gli Etf stanno vivendo una nuova primavera in tutto il globo, i motivi sono essenzialmente due. Il primo è il loro costo straordinariamente basso, a volte prossimo allo zero, per l’investitore finale. Questa peculiarità ne fa uno strumento ideale per chi vuol fare da sé, crede nei mercati, ha pazienza e sa, perché così dicono le statistiche, che nel medio lungo termine (5-10 anni) i mercati non deludono mai. Il secondo motivo è che si prestano perfettamente a essere inseriti come ingredienti in contenitori di consulenza, veri e propri pacchetti in cui possono convivere con fondi comuni a gestione attiva o a singoli titoli, nelle unit link come nelle gestioni separate.
Questa opzione, da alcuni chiamata consulenza evoluta, ha consentito di superare una delle barriere più complesse da scavalcare per la consulenza finanziaria che per definizione intermedia a pagamento tra i mercati e gli investitori finali. In altri termini agli investitori finali è data una duplice opzione, sottoscrivere gli Etf direttamente scegliendo tra quelli che replicano lo Standard & Poor 500, indice creato negli anni venti e che da allora ha reso mediamente il 10% annuo, oppure nel “nostro” Ftse Mib che ha reso “solo” il 5% nell’ultimo anno. Oppure, seconda opzione, seguire i consigli di un consulente che potrebbe suggerire di investire in un contenitore dove Etf e fondi a gestione attive possono coesistere in una posizione core/satellite o viceversa satellite/core e dove la regia del consulente viene remunerata.
Ma il motivo per cui gli Etf stanno conoscendo una nuova primavera è anche legato al fatto che il mix di fattori quali i tassi zero, la complessità dei mercati e la conseguente difficoltà per i gestori attivi di azzeccare le scelte ne ha messo in crisi l’efficienza e la capacità di generare rendimenti positivi per gli investitori finali.
Illuminante è stata una recente analisi fatta dal professor Paolo Cucurachi, partner di Quantalys, e presentata a Consulentia 2022 durante un seminario organizzato da AllianceBernstein e Vanguard dal titolo quanto mai emblematico “Amici nemici. Investimento attivo e passivo: due facce di una stessa medaglia?”. Le premesse dell’analisi sono che gli Etf, ovvero i rappresentanti della gestione passiva, danno la certezza di replicare il benchmark, mentre le gestioni attive nascono con la speranza di battere il benchmark con l’unica certezza però che per fare ciò richiedono all’investitore finale maggiori costi.
Il secondo dato emerso dall’analisi è che solo il 70,83% dei gestori attivi che ha battuto il benchmark, sfruttando le abilità di stock/bond picking e market timing, nel periodo 2012-2017 lo ha battuto anche nel periodo 2017-2022. Viceversa ben il 78,46% di chi, tra i gestori attivi, ha perso rispetto al benchmark nel periodo 2012-2017 lo ha fatto pure nel periodo 2017-2022, come dire: incapaci e recidivi. Tutto ciò in mercati efficienti e trasparenti dovrebbe essere letto dal buon consulente e dal saggio investitore finale come un messaggio chiaro e forte.
In modo molto ecumenico verrebbe da dire che, numeri alla mano, in un portafoglio ben costruito una quota di Etf non dovrebbe mancare. La propensione dei consulenti finanziari a inserire gli Etf nei portafogli consigliati ai loro clienti è passata in 5 anni, dal 16% del 2017 al 56% nel 2021.Il fatto che il mondo della consulenza finanziaria, in anticipo rispetto ad altri settori paralleli, si sia aperto da tempo agli Etf, ne sottolinea la lungimiranza e la capacità di cogliere un trend che appare chiarissimo e ineluttabile.
(Articolo tratto dal magazine We Wealth di maggio 2022)