Con una recente sentenza, n. 15810 del 2024, la Corte di Cassazione si è espressa su una questione particolarmente delicata in materia di gestione e trasferimento del patrimonio, avente ad oggetto la natura e le caratteristiche della partecipazione dei familiari all’impresa di famiglia.
Il caso di specie
La vicenda, che ruota, tra le altre cose, attorno alla disciplina di cui all’art. 230 bis del Codice civile, prende le mosse da una controversia sorta tra marito e moglie – coinvolti nelle attività dell’impresa di famiglia – attorno alla distribuzione degli utili discendenti dall’attività svolta nell’esercizio di impresa.
Più nel dettaglio, si apprende che
- la moglie citava il marito al fine di vedersi riconosciuta una quota di proprietà sugli immobili e le partecipazioni acquistate da quest’ultimo attraverso gli utili maturati con la gestione dell’impresa
- il giudice di merito riconosceva detti diritti alla moglie, rilevando che i coniugi non avevano in effetti altre fonti di reddito se non quelli legati all’esercizio di impresa, e che per giunta, poiché gli acquisti della moglie (di natura immobiliare) apparivano inferiori a quelli del marito, si poteva dedurre che quest’ultimo non avesse correttamente distribuito gli utili perseguiti e ottenuti anche attraverso il contributo lavorativo della moglie
- per questa ragione alla moglie non solo veniva riconosciuta la comproprietà dei beni acquistati dal marito ma anche una somma a titolo di incremento del valore dell’azienda.
A seguito di questa decisione il marito, e in seguito alla sua morte, il figlio di quest’ultimo, ricorreva in Cassazione ritenendo emersi elementi sufficienti a dimostrare l’effettiva e sufficiente distribuzione degli utili in favore della moglie/madre e che, quanto alla richiesta di trasferimento della proprietà degli immobili e delle quote societarie, la moglie/madre avrebbe potuto vantare solo un diritto di credito, senza poter essere riconosciuta come co-titolare dei beni acquistati dal marito.
Tuttavia, quanto all’asserita dimostrazione della effettiva distribuzione degli utili, la Corte di Cassazione dichiarava che, contrariamente a quanto richiesto dal ricorrente, nel giudizio di merito, il marito aveva solo provato in parte questa circostanza e, inoltre, le dichiarazioni fiscali della moglie non potevano essere considerate come prova dell’effettiva distribuzione degli utili.
Sul secondo motivo, invece, quello relativo, appunto, alla richiesta di trasferimento della proprietà degli immobili e delle quote societarie promosse e in primo grado riconosciuta alla moglie, la Corte ha avuto l’opportunità di ragionare sull’origine e la funzione dell’istituto dell’impresa familiare. Ragionamento che di seguito si riassume e ripropone.
L’istituto dell’impresa familiare
Il nostro codice tutela i familiari che contribuiscono attivamente all’impresa familiare, riconoscendo loro il diritto a una partecipazione agli utili, ai beni acquistati con questi e agli incrementi dell’azienda, in proporzione al lavoro svolto. Inoltre, le decisioni relative all’impiego degli utili e alla gestione straordinaria dell’impresa sono adottate a maggioranza tra i partecipanti.
Come ha osservato la Corte, fin dall’introduzione della riforma, l’impresa familiare ha sollevato numerosi dubbi interpretativi, in particolare sulla sua natura collettiva o individuale: l’impresa familiare è un’associazione di persone legate da vincoli familiari, con la qualità di imprenditore estesa a tutti i familiari partecipanti? Oppure, nell’impresa individuale è solo il titolare dell’impresa a possedere tale qualità, mentre i familiari agiscono come collaboratori?
La Suprema Corte, aderendo alla tesi della natura obbligatoria della partecipazione, precisa che i familiari non sono titolari di quote aziendali, ma hanno diritto a una remunerazione per il lavoro prestato.
In caso di morte dell’imprenditore, i familiari diventano creditori per le remunerazioni maturate fino al momento dell’apertura della successione, e tali crediti vengono detratti dall’attivo dell’asse ereditario.
La tesi della natura reale della partecipazione, secondo la quale i familiari divengono co-titolari dei beni acquistati dall’imprenditore, verrebbe a configurare una comunione dei beni, che potrebbe compromettere la tutela dei creditori e snaturare la dinamica dell’impresa familiare.
In base a questa impostazione, gli acquisti effettuati dall’imprenditore verrebbero considerati come compiuti in rappresentanza di tutti i familiari partecipanti.
In conclusione, la Suprema Corte, accoglie il ricorso del figlio/marito, e ribadendo il principio già espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 15899/22, afferma che al coniuge dell’imprenditore non spetta un diritto di comproprietà sui beni aziendali, ma un mero diritto di credito pari alla metà del valore economico dei beni, al netto delle passività.
Il diritto di partecipazione del collaboratore all’impresa familiare sui beni acquistati con gli utili non ripartiti dal titolare dell’impresa ha natura obbligatoria e non reale. Pertanto, il collaboratore può vantare un mero diritto di credito commisurato ad una quota degli utili e degli incrementi aziendali, senza che ciò comporti una contitolarità immediata della proprietà del bene.
La configurazione del diritto di partecipazione quale diritto di credito risulta quella maggiormente coerente con la riconosciuta natura individuale dell’impresa familiare e con la connessa alterità del soggetto collaboratore rispetto all’impresa quale entità dinamica.