“In effetti esiste una correlazione tra ricchezza e competenza finanziaria, ma non è così forte da far pensare che sia sufficiente essere ricchi per saperne di finanza”. A dirlo – sulla base degli studi disponibili sul tema – è Francesco Saita, direttore della Financial Education research unit del centro Baffi, Università Bocconi, e membro del Comitato scientifico del Feduf. È in particolare uno studio condotto nel 2009 da Chiara Monticone a indagare empiricamente il rapporto tra entità del patrimonio e alfabetizzazione finanziaria per gli investitori italiani, per verificare un’ipotesi ricorrente nella letteratura scientifica sul tema. Anche il buon senso sembra suggerire che i più ricchi debbano possedere maggiori conoscenze finanziarie per riuscire a gestire la propria ricchezza. In realtà, anche se la ricchezza è uno dei fattori che influisce sul grado osservato di alfabetizzazione finanziaria, l’effetto di questa sola variabile appare relativamente limitato.
Hnwi, quanto ne sanno di finanza?
“E c’è anche un altro elemento da considerare – dice Saita – Normalmente la competenza finanziaria è misurata indagando sulla conoscenza di nozioni di base, come i tassi composti o la diversificazione o la differenza tra azione e fondo comune. Nozioni che rispetto alla complessità delle esigenze degli Hnwi non sono comunque sufficienti”. Insomma non è ovvio che gli Hnwi italiani siano immuni dal problema dell’italiano medio di disporre di competenze finanziarie inferiori a quelle che sarebbe utile possedere e potrebbero anche rischiare di soffrire più della media di over confidence. Ma nel loro caso è un tema probabilmente ancora più critico.
“I problemi emergono soprattutto – prosegue Saita – quando si tratta di passaggio generazionale, che può coinvolgere sia l’impresa di famiglia degli Hnwi che il patrimonio esterno all’impresa”. Nella fascia degli Hnwi c’è una stratificazione di generazioni: “spesso la prima è quella di chi ha creato in prima persona la ricchezza, la seconda è quella dei manager che in qualche modo hanno contribuito ad accrescerla e poi ci sono le generazioni successive che non sempre sono altrettanto direttamente coinvolte e che possono trovarsi a gestire anche un significativo patrimonio esterno”. La successione riguarda quello che avviene in azienda ma anche il patrimonio finanziario. “Al crescere della dimensione della famiglia, questa passa da gestore ad azionista di lungo termine lasciando spazio a manager esterni. In contemporanea si crea una situazione per cui le generazioni nuove si trovano a investire anche fuori dall’azienda una parte della ricchezza generata al suo interno. Per gestire correttamente questo benessere saranno necessarie sia competenze da azionista, sia competenze da gestore finanziario”. E allora, se queste competenze mancano, si spiega anche perché solo un terzo delle imprese di famiglia sopravviva al terzo passaggio generazionale.
Le famiglie high net worth sembrano prestate molta attenzione alla formazione universitaria e a curare le esperienze a cui sono esposte la terza e quarta generazione, ma non è scontato che la medesima attenzione sia attribuita all’educazione finanziaria.
Patrimonio aziendale e patrimonio personale
“Le next Gen – chiosa il professore – possono avere (e questo non vale solo per gli Hnwi) minori prospettive di guadagno rispetto ai genitori ma partono da una ricchezza ereditata già importante. È un fatto che dovrebbe spostare l’attenzione sul saper far fruttare bene il patrimonio pre-esistente, investendo in modo consapevole e produttivo. E per avere questa visione di lungo termine e di insieme, devono sapere come muoversi nel mercato”. È un tema trasversale anche alle diverse fasce di ricchezza: che dovrebbe far accendere una lampadina sull’importanza della formazione: che in parte può essere acquisita anche in Accademia, ma che va potenziata indipendentemente e continuamente nei nuclei famigliari più importanti e attraverso l’interazione con family office e consulenti.
Il che non significa, ovviamente che gli Hnwi debbano avere tutti competenze pari a quelle dei loro consulenti, ma che devono poter essere protagonisti nella relazione con i consulenti a cui si affiancheranno. “Gli Hnwi hanno bisogni più complessi della media della popolazione e non possono prescindere da diverse consulenze professionali – conclude Saita – e questo è corretto. Ma se dominano i temi di cui parlano con i consulenti sono in grado di focalizzare obiettivi e strategie adatte a ottenerli. Non funziona più un approccio per delega totale, tipico dell’imprenditore familiare vecchio stampo. Non si va dal consulente a chiedere di risolvere un problema di cui non ci si può occupare per mancanza di tempo. Quando il patrimonio diventa importante e complesso, il tempo che gli si dedica è vitale per la conservazione del benessere della famiglia quanto quello usato per la gestione diretta del business”.
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