L’etimologia la descrive come che ciò si “assume sopra di sé”. Il buon senso come ciò “che si ha in animo di fare”. La storia, come occasioni uniche per lasciare un segno sulla società e sul territorio, ridisegnandone i confini e tracciandone le vie del progresso. È l’impresa, quell’attività economica volta alla produzione o scambio di beni e servizi, che da sempre caratterizza il tessuto economico moderno e che parte proprio da chi “ha in animo di fare”: l’imprenditore. E che nei casi più felici non si limita ai fini di lucro, ma restituisce.
Lo confermano anche i dati: in Italia, gli imprenditori sono più inclini alle donazioni filantropiche rispetto al resto dei wealthy people, osserva il secondo rapporto L’esperienza filantropica dei wealthy people in Italia di Fondo Filantropico Italiano e Finer. Gli imprenditori registrano infatti un volume economico maggiore in termini di donazioni, con una media di 12.350 euro l’anno contro gli 11.109 di chi ha un patrimonio compreso fra i 5 e i 10 milioni di euro. Donano a titolo personale, attraverso le imprese o tramite un mix, e sono inoltre più coinvolti in prima persona in attività di volontariato (ben il 71% degli intervistati dalla ricerca).
Nei casi più felici, si diceva, il dono non si limita all’importo economico o al proprio tempo, ma diventa un catalizzatore di trasformazione profonda per l’imprenditore, in una sorta di volano che spinge l’impresa a orientarsi verso una maggiore consapevolezza del proprio agire, seguendo le best practice, innovando e lavorando sulla propria responsabilità sociale, quasi come un girasole orientato verso la luce per crescere al meglio.
Ad aver sperimentato sulla propria pelle gli effetti benefici di questa esperienza è Bianca Passera, terza generazione d’impresa oggi sotto l’egida di LarioHotels Società Benefit, una storia familiare che fin dagli inizi del ‘900 ha legato il proprio agire alla città di Como e che oggi cresce florida ben oltre i confini regionali. L’esperienza è quella della comunità di Kalongo, dove la Fondazione Dr. Ambrosoli Memorial Hospital opera dagli anni ’90 in memoria di Padre Giuseppe Ambrosoli e che Bianca Passera ha contribuito a sostenere, sposandone la causa. Un’esperienza che ha cambiato la sua visione circa il give back – da sempre radicato in famiglia – e il modo di fare impresa, con una storia capace di ispirare anche a migliaia di chilometri, a continenti di distanza.

Come si è concretizzato il suo supporto alla Fondazione?
“Ho contribuito a sostenere 10 borse di studio per le studentesse della St. Mary’s Midwifery School, la scuola di ostetricia di Kalongo, nel nord dell’Uganda, sostenuta dalla Fondazione. Ho avuto l’opportunità di visitare Kalongo e di toccare con mano la realtà di cui fino a quel momento avevo solo sentito parlare. La mia visita al villaggio è stata a dir poco illuminante e di ispirazione per la mia esperienza di vita, e per questo devo ringraziare la Fondazione Dr. Ambrosoli Memorial Hospital per avermene offerto l’opportunità.”
Illuminante, diceva: c’è stato un momento o un incontro che l’ha particolarmente colpita e che ha rafforzato la sua consapevolezza sull’importanza del progetto che sostiene in prima persona?
“Uno dei momenti che porto nel cuore è stato assistere a una lezione di Suor Carmel Abwot, direttrice della St. Mary’s Midwifery School. Non si trattava solo di un momento didattico volto all’apprendimento di una tecnica: Suor Carmel spiegava alle future ostetriche che il loro ruolo andava oltre alla professione sanitaria. In Uganda le ragazzine diventano madri a 11/12 anni in media e dare alla luce una femmina è considerata una vera e propria sciagura. Ma le ostetriche possono invertire questa credenza. ‘Siete le prime persone che incontreranno il padre’ diceva ‘e sarete voi a mettergli tra le braccia la neonata. Tocca a voi fargli capire che un bebé femmina è una gioia tanto quanto un bebé maschio. Ora, cosa c’è di più da imparare in quel mondo?’. Quelle parole mi hanno commossa: il potenziale dietro al lavoro di un’ostetrica a Kalongo è molto più vasto di quanto si possa immaginare arrivando da altre culture. Sono sicura che queste ragazze, attraverso una formazione che le renderà più consapevoli e un lavoro che permetterà loro di avere un reddito, avranno più chance di costruirsi un futuro migliore per loro stesse e di offrirlo migliore alle loro figlie. E si sa che quando si costruisce sulla figura femminile, il ritorno che si ha su tutta la famiglia/società è molto grande”.

In che modo l’esperienza del viaggio a Kalongo ha influenzato la sua visione della filantropia e dell’importanza dell’impegno e azione diretti sul campo?
“Fino a quando non si tocca con mano la gravità, alcune situazioni sfuggono. Soprattutto per quelle legate a necessità lontane, lontanissime da noi, che stanno in mezzo al nulla, proprio come quella dove si trova l’ospedale operato e sostenuto dalla Fondazione. Di Kalongo si parla come di un ospedale specializzato per le donne. E questo è vero, ma è anche di più. Si tratta di una comunità cui si appoggiano i malati di un’intera regione e i loro cari che prestano assistenza. Ci sono sale operatorie per interventi chirurgici importanti, c’è un reparto dedicato alle malattie infettive e una clinica per la cura e la prevenzione dell’AIDS e ci sono medici ugandesi specializzati che lavorano con medici di provenienza internazionale. C’è un lavoro di squadra e c’è lo sforzo di formare persone del posto”.
Tradizionalmente, il filantropo tende a destinare il proprio supporto per progetti apparentemente più ‘urgenti’. Ma c’è molto altro cui dare linfa…
“Assolutamente. Ricordo quando Giovanna Ambrosoli mi ha parlato della necessità di cercare finanziamenti per costruire nuovi alloggi per il personale medico. Sulle prime, lo ammetto, pensavo fosse un’esigenza secondaria, che forse sarebbe stato più urgente destinare quei fondi all’acquisto di farmaci o attrezzature mediche. Poi ho visto con i miei occhi dove vivono i medici. E ho capito. In un contesto così difficile, dare loro condizioni dignitose non è un lusso, è una necessità”.

Qual è per lei la portata del cambiamento cui può dare il via la filantropia?
“Quando sono arrivata a Kalongo, ho visto con i miei occhi la dedizione di Suor Carmel e la qualità dell’insegnamento nella scuola di ostetricia. Ho percepito chiaramente il desiderio della Fondazione di offrire a sempre più ragazze un’opportunità concreta di crescita. E ho capito che volevo far parte di quel progetto così profondamente lungimirante e concreto. Sostenere nel loro percorso formativo una decina di ragazze può sembrare solo un piccolo passo, e certo, da solo non cambia il mondo. Ma chi può dire dove porterà? Quelle dieci ragazze potrebbero diventare un esempio per le loro sorelle, le loro figlie, le loro amiche. Il cambiamento non si ferma mai alla prima persona: si diffonde, si moltiplica. E proprio lì, in una delle aree più remote dell’Uganda, ho visto quanto possa essere potente dare a qualcuno la possibilità di guardare oltre il proprio orizzonte”.
L’importanza del dono si può imparare, o è un tratto acquisito?
“Provengo da una storia di famiglia in cui aiutare chi aveva meno opportunità di noi non era solo un gesto, ma un valore fondamentale. I miei nonni, poi mio padre e mio fratello, hanno sempre portato avanti questo principio anche all’interno dell’azienda, considerandola non solo un luogo di lavoro, ma una comunità. Ho visto con i miei occhi cosa significasse davvero prendersi cura delle persone: supportare un dipendente nell’acquisto della casa, aiutarlo a far studiare i figli. E soprattutto, ho imparato che non sprecare era una vera e propria filosofia di vita. Mio nipote Luigi (Luigi Passera, Amministratore Delegato di LarioHotels) ed io abbiamo semplicemente proseguito su questa strada”.

Dal 2021 il gruppo Lario Hotels è una società benefit. L’impegno nei confronti del territorio e delle comunità, oltre che di trasparenza per gli investitori, è ben comunicato nel Report annuale di impatto e responsabilità sociale. In che modo l’impegno filantropico personale ha influenzato la sua visione imprenditoriale e la volontà di conseguire queste e altre “best practice” aziendali?
“Il mio impegno personale a costruire la nostra azienda come una società benefit è derivato dal desiderio di mettere nella mission aziendale un ‘sentire’ che desideravo non andasse sprecato. Misurare ogni anno quello che abbiamo fatto per rispondere ai nostri obiettivi di beneficio comune significa anche tenere la barra dritta affinché la nostra identità sia sempre mantenuta. L’esperienza a Kalongo, così come altre che ho vissuto accanto alle organizzazioni no profit che sostengo, ha giocato un ruolo importante e hanno arricchito il mio bagaglio personale. Penso che fare business operando con rispetto verso le persone, il territorio e l’ambiente sia anche diventato imprescindibile: oggi non possiamo non considerare tematiche come il benessere dei dipendenti, la formazione, il supporto al territorio, il rispetto nell’utilizzo delle risorse naturali, il non spreco. Il cambiamento che deriva dal supporto filantropico non si limita mai alla prima persona: si diffonde e si moltiplica, creando un impatto che trascende le generazioni”.
