Ai fini della determinazione dell’asse ereditario, necessaria a calcolare le quote riservate ai legittimari e quella di cui il defunto poteva liberamente disporre, vanno considerati sia i beni presenti nel patrimonio del de cuius al momento dell’apertura della successione, al netto delle passività ereditarie, sia eventuali donazioni che questi abbia effettuato in vita.
Come precisato dall’art. 809 c.c., in proposito rilevano non sono solo le donazioni “dirette” (ossia, quelle disciplinate dagli artt. 769 ss. c.c., da effettuarsi, a pena di nullità, con atto formale notarile alla presenza di testimoni), ma anche le donazioni “indirette”, per tali intendendosi tutti quei negozi giuridici che, pur non rivestendo la forma dell’atto di donazione, ne producono i medesimi effetti economici, per la cui validità è sufficiente il rispetto dei requisiti formali previsti per il negozio di volta in volta utilizzato (caso paradigmatico è l’intestazione al beneficiario di un immobile, il cui prezzo di acquisto è stato pagato dal donante o direttamente o fornendo al beneficiario i mezzi, perché vi provveda).
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Di recente la Suprema Corte, con sentenza della II sez. civile n. 23036 del 28/7/2023, ha chiarito che fra le donazioni indirette, rilevanti a fini successori, può astrattamente rientrare anche la rinuncia a esperire la stessa azione di riduzione.
La vicenda in esame
La vicenda esaminata dai giudici di legittimità trae origine da un’azione di riduzione promossa da un figlio nato fuori dal matrimonio nei confronti della sorella (figlia invece di entrambi i coniugi) la quale, a differenza del fratello, aveva beneficiato di talune donazioni da parte del padre; l’attore, dopo essere risultato solo parzialmente vincitore in primo grado, aveva proposto appello, lamentando, fra l’altro, che il tribunale non avesse tenuto conto dell’utilità che la convenuta aveva tratto dalla rinuncia del padre a proporre azione di riduzione avverso il testamento della moglie, la quale era allo stesso premorta e aveva nominato la figlia propria erede universale, pretemettendo totalmente il marito.
Tale motivo di impugnazione era stato, tuttavia, ritenuto infondato dai giudici di secondo grado, i quali avevano escluso la natura di liberalità di una tale rinuncia, sul presupposto che essa avrebbe semplicemente precluso al de cuius la possibilità di impugnare il testamento lesivo, senza incidere sulla consistenza del suo patrimonio, con conseguente impoverimento a favore della figlia.
La pronuncia della Corte di Cassazione sulla rinuncia a esperire l’azione di riduzione
Proposto quindi ricorso per Cassazione, la Suprema Corte ha invece condiviso la tesi del ricorrente e cassato con rinvio la sentenza di appello.
Nella propria motivazione, i giudici di legittimità hanno infatti evidenziato come già le Sezioni Unite, con la sentenza n. 18725/2017, avessero riconosciuto che anche una rinuncia a un diritto – qualora sia attuata per avvantaggiare un terzo – può configurare una donazione indiretta (sottolineando tuttavia, al contempo, la necessità di un nesso di causalità diretto fra tale rinuncia e l’arricchimento del beneficiario).
Nel medesimo senso si sono poi pronunciate anche, fra le altre, Cass. civ., sez. II, 11/6/2019, n. 15666 (la quale ha però escluso la natura liberale della rinuncia a sottoscrivere un aumento di capitale di una società, proprio per assenza di nesso causale diretto, in quanto ne avrebbero potuto beneficiare tutti i soci e non solo il presunto donatario), ovvero Cass. civ., sez. II, 18/9/2019 n. 23260 (che ha invece ritenuto configurare donazione indiretta la rinuncia del de cuius ad agire in regresso nei confronti di un figlio, dopo averne saldato un debito); in precedenza, Cass. civ., sez. II, 25/2/2015 n. 3819 aveva qualificato come donazione indiretta la rinuncia alla comproprietà di un bene, finalizzata ad avvantaggiarne gli altri proprietari.
Tali principi di diritto sono stati quindi estesi anche alla rinuncia a esperire l’azione di reintegrazione per lesione di legittima, e la Suprema Corte ha censurato le argomentazioni in base alle quali i giudici di appello ne avevano negato la natura liberale (ossia l’impossibilità di donare un’utilità che mai è entrata a far parte del patrimonio del preteso donante), in quanto riferibili esclusivamente alle donazioni dirette; al contrario, per quelle indirette deve ritenersi sufficiente la sussistenza di un arricchimento senza corrispettivo a favore del beneficiario, voluto dal donante per spirito liberale ed attuato in modo diverso rispetto all’attribuzione di un diritto, ovvero all’assunzione di un obbligo.
Conseguentemente, secondo i giudici di legittimità, configura senz’altro donazione indiretta la consapevole rinuncia – sorretta da intento liberale – alla possibilità di arricchire il proprio patrimonio in favore della parte che sarebbe risultata impoverita per effetto dell’esperimento dell’azione di riduzione: di qui la rimessione alla Corte di appello, affinché valuti se nel caso di specie ricorrono tali requisiti, nonché la sussistenza del nesso di causalità diretta fra donazione e arricchimento del beneficiario.
Va ad ogni modo precisato che nel caso in esame, secondo quanto si evincerebbe dalla lettura della motivazione, il de cuius aveva effettuato una formale rinuncia notarile all’azione, rendendo in tal modo definitive le attribuzioni patrimoniali lesive. Può quindi essere opportuno chiedersi se analogo effetto possa avere anche l’eventuale inerzia del legittimario sino al decorso del termine di prescrizione dell’azione: ove si ritenesse la sufficienza anche di un semplice contegno omissivo, perché possa ravvisarsi una liberalità dovrebbe comunque accertarsi l’effettiva sussistenza di un animus donandi, e quindi di una consapevole volontà, in capo al de cuius, di voler beneficiare in tal modo il donatario.