In tema di redditi da partecipazione non qualificata di fonte estera percepiti da persone fisiche residenti in Italia, la recente sentenza n. 25698/2022 (depositata in data 1° settembre 2022) rappresenta la prima pronuncia con cui la Corte di Cassazione riconosce un diritto alla detrazione dell’imposta versata nello Stato della fonte dall’imposta sostitutiva sui dividendi esteri ai sensi dell’art. 18 del Tuir, da liquidare in sede dichiarativa.
Nonostante i principi ivi espressi non possano ritenersi consolidati, rappresentano di certo un orientamento potenzialmente in grado di smuovere le acque, sia con riferimento all’assetto normativo, sia alla posizione presa dall’amministrazione fiscale che, volente o nolente, dovrà riesaminare la propria prassi.
Per meglio comprendere la portata della pronuncia della Corte di Cassazione conviene prima chiarire il quadro normativo interno.
La disposizione di riferimento è l’art. 165 del Dpr. n. 917/1986 (Tuir) che individua il credito di imposta quale rimedio diretto a eliminare la doppia imposizione. Tra le condizioni per poter beneficiare del credito di imposta, la norma prevede che i redditi prodotti all’estero debbano concorrere alla formazione del reddito complessivo. A contrariis, ne consegue che quando tali redditi sono assoggettati ex lege a regimi impositivi diversi dalla tassazione ordinaria (nel caso di specie ritenuta alla fonte ovvero a imposta sostitutiva) nessun credito viene riconosciuto.
Cos’ha previsto il legislatore?
Il legislatore ha previsto un diverso trattamento fiscale a seconda che i dividendi esteri siano percepiti con l’intervento di un intermediario residente o meno.
Nel primo caso, infatti, l’art. 27 del dpr. n. 600/1973 prevede l’applicazione, da parte dell’intermediario residente che interviene nella riscossione, di una ritenuta alla fonte nella misura del 26% del reddito al netto di quanto già versato nel Paese di origine (cosiddetto “netto frontiera”).
Nel secondo caso, nell’ipotesi in cui il contribuente percepisca direttamente i redditi da partecipazione estera, l’art. 18 del Tuir impone l’assoggettamento di tali redditi a imposta sostitutiva applicando la medesima aliquota del 26% da liquidare in dichiarazione dei redditi.
I due regimi: differenze tra loro
A ben vedere, i due regimi si differenziano oltre che nella fonte normativa, anche nella diversa base imponibile utilizzata per il calcolo dell’imposta dovuta. Infatti, laddove intervenga un intermediario nel momento della riscossione, il trattamento fiscale risulta quantomeno attenuato dal meccanismo del “netto frontiera” (dividendo diminuito della ritenuta operata nello stato estero della fonte).
Diversamente, la base imponibile coincide con l’intero ammontare del dividendo al lordo dell’imposta estera (cosiddetto “lordo frontiera”), a discapito del contribuente, tenuto a scontare un maggior prelievo fiscale. Sul punto, la stessa Agenzia delle entrate sostiene fermamente questa posizione da lungo tempo; come si legge nella risoluzione n. 80/E del 26 aprile 2007, in assenza di sostituto di imposta che interviene nella riscossione, l’utile distribuito va assoggettato a imposizione sostitutiva al lordo delle eventuali ritenute subite nello Stato estero (senza possibilità appunto di beneficiare del credito di imposta ex art. 165 Tuir).
La pronuncia della Corte di Cassazione
È proprio nell’ambito del diverso trattamento appena descritto che si inserisce la pronuncia della Corte di Cassazione.
Dopo aver evidenziato come la funzione svolta dall’imposta sostituiva ex art. 18 del Tuir risulta essere “del tutto sovrapponibile alla ritenuta alla fonte a titolo d’imposta prevista dall’art. 27 del Dpr n. 600/1973”, la Cassazione propone una soluzione di compromesso per riportare equilibrio tra i due regimi impositivi. In tale ambito, i giudici ammettono la possibilità di detrarre l’imposta assolta all’estero dall’imposta sostitutiva del 26% liquidata ai sensi del richiamato articolo 18.
Il ragionamento seguito dalla Corte si fonda sul contrasto riscontrato tra l’assetto normativo interno e taluni trattati bilaterali per evitare le doppie imposizioni siglati dall’Italia (nel caso di specie quello con gli Stati Uniti d’America).
Le convenzioni bilaterali
L’art. 23, paragrafo 3 della Convenzione Italia-Usa disconosce qualsiasi deduzione “ove l’elemento di reddito sia assoggettato in Italia a imposizione mediante ritenuta a titolo d’imposta su richiesta del beneficiario di detto reddito in base alla legislazione italiana”. Dalla lettera della disposizione, i giudici concludono che qualora l’assoggettamento a imposizione dei dividendi esteri in Italia (con ritenuta o mediante imposta sostitutiva) non avvenga «su richiesta del beneficiario», ma obbligatoriamente, non potendo il contribuente optare per l’imposizione ordinaria, ne consegue la detraibilità dell’imposta assolta nel Paese della fonte. In altri termini, la detraibilità dell’imposta estera sarebbe diretta conseguenza del fatto che l’imposizione sostitutiva per tali redditi è obbligatoria per legge e non facoltativa.
Peraltro, l’espressione «su richiesta del beneficiario» è utilizzata nella maggioranza dei Trattati bilaterali stipulati dall’Italia in epoca risalente; è il caso, ad esempio, della Convenzione Italia-Austria (29 giugno 1981), della Convenzione Italia-Francia (5 ottobre 1989), della Convenzione Italia-Germania (18 ottobre 1989), della Convenzione Italia-Cina (31 ottobre 1986), della Convenzione Italia-Regno Unito (21 ottobre 1988) e molte altre.
È giocoforza ritenere che in tutti i casi in cui il testo dell’accordo bilaterale contro le doppie imposizioni contenga la medesima formulazione sarebbe ammessa la detrazione dell’imposta estera già versata. Non è un caso che le convenzioni bilaterali più recenti (si tratta ad esempio delle convenzioni stipulate tra l’Italia e, tra le altre, Arabia Saudita, Cipro, Malta, Principato di Monaco e Singapore) contengano una diversa disposizione, secondo cui nessuna detrazione viene riconosciuta laddove l’imposizione dei suddetti redditi in Italia – con ritenuta alla fonte o mediante imposta sostitutiva – avvenga «anche su richiesta del contribuente».
Appare quindi confermato l’orientamento intrapreso dalla Cassazione, secondo cui quando il legislatore italiano “ha inteso negare il credito d’imposta – non solo nei casi in cui l’assoggettamento dell’elemento di reddito a imposta sostitutiva o a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta avvenga su richiesta del contribuente, ma anche nei casi in cui esso sia obbligatorio in base alla legge italiana – lo ha previsto espressamente” (cfr. §1.7, ultimo periodo, della sentenza).
I prossimi passi
In ultima analisi, la pronuncia della Corte si pone nel segno di riallineare i regimi impositivi che, ad oggi, sembrano operare a due livelli differenti. Pertanto, applicando i principi espressi dalla Cassazione, nessun particolare cambiamento si riscontra con riferimento all’intermediario, che sarà ancora tenuto ad applicare la ritenuta sul “netto frontiera”; tuttavia, qualora i dividendi esteri siano percepiti direttamente, il contribuente potrebbe autonomamente detrarre l’imposta estera in sede dichiarativa, attenuando così il rigido sistema di tassazione al lordo sostenuto dall’Agenzia delle entrate.
Come già anticipato, seppur rappresenti un punto di svolta condiviso da gran parte della dottrina tributaria, la recente sentenza non può considerarsi ancora orientamento consolidato. È oltremodo necessario ora, proprio in virtù dei principi emersi dalla pronuncia esaminata, che il legislatore intervenga per ridefinire il trattamento impositivo degli utili esteri in armonia con il diritto tributario internazionale.