Debiti fiscali del de cuius e accettazione tacita dell'eredità

Pietro Mastellone
29.10.2021
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La giurisprudenza chiarisce che qualora il chiamato all'eredità impugni un atto impositivo per debiti fiscali del de cuius, senza contestare immediatamente la qualità di erede, deve considerarsi integrata un'accettazione tacita
I chiamati all'eredità, onde evitare di incorrere in un'indesiderata responsabilità per i debiti tributari del de cuius, devono essere ben consci che determinati comportamenti vengono interpretati come emblematici di una loro implicita assunzione della qualifica di eredi: insomma, integranti un'accettazione tacita dell'eredità.
Il tema risulta estremamente delicato per le plurime implicazioni giuridiche e fiscali che discendono dall'acquisto dello status di erede conseguente all'accettazione, la quale determina un'indiscriminata “confusione” (e successiva “unificazione”) tra il patrimonio dell'erede e quello del defunto.

La modalità tacita di accettazione si colloca, come è facile intuire, su un terreno particolarmente scivoloso, perché rappresenta un istituto che il codice civile tratteggia solo nei connotati essenziali, senza indicare un numero tassativo di ipotesi in grado di integrarlo, con l'inevitabile conseguenza che si è lasciato alla giurisprudenza il compito di stilare un elenco casistico, in costante espansione, composto da fattispecie che, talvolta, risultano difficilmente prevedibili dai privati (e altrettanto poco condivisibili).
Solo dall'analisi della prassi applicativa è, dunque, possibile procedere ad un “censimento” delle attività che possono sottintendere facta concludentia un'accettazione tacita dell'eredità da parte del chiamato, la quale determina un irrevocabile ingresso in tutte le posizioni attive e passive – tra cui quelle che attengono a debiti nei confronti del fisco – in applicazione del principio semel heres, semper heres.
Nel momento in cui una persona viene meno, l'ordinamento si pone il problema di individuare il soggetto o i soggetti che gli succederanno, prevedendo una serie di regole che disciplinano il fenomeno “necessario” della successione. Necessario perché, sebbene l'autonomia negoziale sia incoraggiata ad intervenire con il testamento, qualora il defunto non abbia messo per iscritto le proprie ultime volontà si applicano le disposizioni codicistiche in materia.
All'apertura della successione mortis causa, come noto, i successori vengono individuati attraverso la c.d. vocazione, per legge o per testamento, la quale rappresenta il titolo in forza del quale si è chiamati a succedere ed è coeva all'apertura della successione ex art. 456 c.c. Al riguardo, è bene rammentare che il soggetto vocato non dispone di alcun potere, proprio perché la vocazione comporta la “messa a disposizione”, a favore del chiamato, dell'universalità dei beni del defunto o di una quota di essi: si colloca temporalmente prima del vero e proprio acquisto dell'eredità.

E, infatti, è solo con la chiamata all'eredità (c.d. delazione) di cui all'art. 457 c.c. che i soggetti vocati ricevono la vera e propria “offerta” del diritto di succedere, sorgendo in capo a questi il diritto-potere di accettazione dell'eredità oppure di rinuncia ad essa, nonché divenendo titolare di alcuni poteri “meramente conservativi” o “di amministrazione temporanea” così come descritti dall'art. 460 c.c. Detto altrimenti, la delazione, che nella maggior parte dei casi coincide temporalmente con la vocazione, conferisce ai destinatari il diritto potestativo di accettare l'eredità, cioè, per usare un'espressione colorita, un diritto al diritto di succedere, il quale si prescrive in dieci anni.

Attraverso l'accettazione (civilistica) si realizza la successione (anche tributaria) nel debito d'imposta, cioè quel fenomeno che riguarda fattispecie imponibili manifestatesi nei confronti del de cuius e trasferite sull'erede per effetto della successione. Fenomeno reso possibile dalla simultanea sussistenza di due elementi:
a) la manifestazione di volontà – espressa o tacita – dei chiamati di accettare l'eredità; e
b) la natura patrimoniale del rapporto d'imposta, la quale esprime l'idoneità a trasferirsi ai terzi insieme agli altri rapporti facenti parte del patrimonio del contribuente defunto.

L'accettazione determina un effetto devolutivo avente una portata molto vasta e che comprende anche le obbligazioni impositive, le quali seguono però una disciplina specifica rispetto a quella generale prevista dall'art. 752 c.c., secondo cui «i coeredi contribuiscono tra loro al pagamento dei debiti e pesi ereditari in proporzione delle loro quote ereditarie, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto».

Orbene, appurato che l'accettazione rappresenta il passaggio obbligato per poter diventare erede – e, quindi, corresponsabile per i debiti tributari del de cuius – occorre sottolineare come con tale termine si faccia riferimento ad un ventaglio di tipologie tra loro eterogenee, ma tutte idonee a perfezionare l'acquisto di detta qualifica.

Dal punto di vista sistematico, la prima categoria di accettazione è quella c.d. espressa, attraverso la quale il chiamato può accettare l'eredità:
a) senza apporre riserve o condizioni (c.d. accettazione “pura e semplice”), determinando la già citata fusione tra il patrimonio personale e quello ereditato, con la conseguenza che gli eventuali debiti del defunto dovranno essere pagati anche ricorrendo alle proprie disponibilità, laddove l'attivo della massa ereditaria non risulti di per sé sufficiente a farvi fronte (artt. 470 e 475 c.c.);
b) mantenendo distinto il patrimonio personale da quello del de cuius (c.d. accettazione “con beneficio d'inventario”), con la conseguenza che gli eventuali debiti del defunto saranno pagati attingendo solo nei limiti di quanto ricevuto per successione (art. 484 ss. c.c.); oppure
c) in modo automatico (c.d. accettazione “presunta” o ope legis), al ricorrere di due ipotesi in cui il legislatore intende, in qualche modo, “punire” l'inerzia del chiamato all'eredità o un suo comportamento illecito, e cioè:

  •  possesso di beni ereditari che non vengono inventariati dal chiamato all'eredità entro il termine di tre mesi (art. 485 c.c.);

  •  sottrazione od occultamento di beni spettanti all'eredità (art. 527 c.c.).


La seconda categoria risulta, invece, quella della c.d. accettazione tacita, che risulta la modalità più frequente nella pratica e si realizza quando il chiamato compie un atto che presuppone necessariamente la volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede: per aversi accettazione tacita non basta compiere un atto con la volontà di accettare, bensì occorre anche che l'atto stesso sia tale da non potersi compiere se non da colui che sia erede.
Sotto il profilo formale, vi è una grande differenza tra le due tipologie di accettazione: se per l'accettazione espressa la legge prevede che l'assunzione del titolo di erede avvenga in modo solenne con atto pubblico (art. 2699 c.c.) o con scrittura privata (art. 2702 c.c.), ben più sfumate risultano le ipotesi in cui si perfeziona l'accettazione tacita, posto che la legge si limita a richiedere il compimento di anche un solo atto che presupponga “necessariamente” la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede. Se i chiamati all'eredità non intendono, dunque, accettare l'eredità devono stare particolarmente attenti a non realizzare comportamenti in grado di integrare un'accettazione tacita, determinando l'acquisto incondizionato, seppur involontario, dell'eredità e la loro definitiva acquisizione della qualità di erede.
Il variegato caleidoscopio delle ipotesi di accettazione tacita dell'eredità delineato via via dalla giurisprudenza, si è recentemente arricchito con una nuova ipotesi, affrontata in Cass. civ., Sez. Trib., (ord.) 29 ottobre 2020, n. 23989.
In tale occasione, la Suprema Corte, pronunciandosi in un contenzioso nato nel 1982 in cui la vedova e i due figli avevano impugnato un avviso di rettifica per corrispettivi non contabilizzati e maggiore IVA relativi all'impresa del defunto, ha preso atto che i familiari ricorrenti avevano rinunciato all'eredità con atto notarile ex art. 519 c.c. prodotto, però, solo durante il giudizio di appello e con cui pretendevano di “neutralizzare” gli effetti che la pretesa fiscale potesse spiegare nei loro confronti. Nel caso di specie, tuttavia, i supremi giudici hanno reputato che il comportamento complessivo dei chiamati all'eredità, consistito nell'impugnare l'atto impositivo con tre distinti ricorsi senza contestualmente eccepire la loro legittimazione passiva, avesse inequivocabilmente integrato la loro acquisita qualifica di eredi, con la conseguenza che la rinuncia all'eredità prodotta in appello doveva considerarsi tardiva e, quindi, del tutto inefficace. In altri e più chiari termini, la Corte ha puntualizzato che la rinuncia all'eredità – e la portata retroattiva che ne consegue – è atto che può essere esperito unicamente dal chiamato all'eredità e non anche da chi tale eredità l'abbia accettata, seppur in modo tacito.
Sebbene tale decisione rappresenti un importante monito per i chiamati all'eredità, le conseguenze pratiche che ne derivano appaiono fortemente criticabili, perché applicare i principi dell'accettazione tacita al modo di confezionare il ricorso tributario determina delle conseguenze sproporzionate ed irreversibili per un comportamento che, tutto sommato, potrebbe essere dovuto ad una disattenzione dei chiamati stessi o del professionista che li assiste in giudizio.
Il ricorso tributario è, in sé, lo strumento tecnico che l'ordinamento mette a disposizione per difendersi avverso un atto proveniente dall'Amministrazione finanziaria; di talché, dalla sua più o meno completa stesura pare assai arduo ricavare “necessariamente” una “volontà” del chiamato di accettare l'eredità: è proprio sotto questo punto di vista che la decisione della Cassazione risulta maggiormente criticabile, perché determina l'irrimediabile cambio di “casacca” da chiamato all'eredità ad erede al ricorrere di una mera dimenticanza giuridico-procedurale.
Pur non condividendosi la dilatazione dell'accettazione tacita proveniente da questa ultima decisione di legittimità, appare chiaro che, allo stato attuale, la strada più prudente per non dover rispondere dei debiti fiscali del de cuius, a meno che il chiamato non intenda accettare con beneficio d'inventario, limitando così la responsabilità al patrimonio dell'asse, risulta quella di rinunciare all'eredità con atto avente portata retroattiva e formalizzato prima di compiere qualsiasi comportamento che, all'esterno, possa essere interpretato come esorbitante una mera attività “conservativa”.
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Avvocato cassazionista italo-britannico specializzato in diritto tributario e penal-tributario.

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