In questo periodo dell’anno, per coloro che hanno realizzato plusvalenze sulle criptovalute, il conteggio delle imposte si trasforma in una impresa pressoché impossibile. Ciò a causa della circostanza che l’Agenzia delle Entrate in alcuni sporadici chiarimenti (risoluzione n. 72 del 2.09.2016, risposta n. 14 del 28.09.2018, risp. n. 110 del 20.04.2020 e risoluzione Dre Lombardia n. 956-39 del 22.01.2018 e risposta Dre Liguria n. 903-47/2018 del 9.02.2018), alcuni dei quali non pubblicati, ha assimilato tout court le criptovalute alle valute estere ai fini fiscali, senza però tenere nella giusta considerazione la loro peculiarità.
Tale assimilazione comporta difatti la necessità di effettuare i conteggi delle cosiddette plusvalenze da cambi con tutte le difficoltà che ne conseguono, in particolare:
i) la necessità di monitorare costantemente le giacenze sui vari conti in valuta;
ii) la difficoltà nella quantificazione dell’imponibile;
iii) la totale mancanza di cambi ufficiali delle criptovalute;
iv) l’impossibilità di dare mandato a un intermediario finanziario di effettuare i conteggi e gli adempimenti fiscali.
Sotto il primo profilo, la tassazione scatta al superamento della giacenza media di 51.645,69 euro per sette giorni lavorativi consecutivi (art. 67, c. 1-ter, Tuir) sul complesso dei conti in valuta diversa dall’euro. Ciò implica uno sforzo di monitoraggio dei conti in valuta e spesso l’impossibilità per l’investitore di evitare il superamento di tale soglia. Se la giacenza viene superata, le plusvalenze su tutti i conti in valuta sono attratti a tassazione, anche qualora non abbiano superato la menzionata soglia di giacenza media.
A ciò si aggiunga la circostanza che il conteggio avviene sulla base del metodo cosiddetto Lifo, cioè il costo fiscale va ricostruito a ritroso calcolando il prezzo di carico per ogni acquisto di valuta partendo dai più recenti. In particolare, le plusvalenze sui cambi incrociati fra valute diverse dall’euro (ad esempio nel caso del cosiddetto cable, cioè il cambio Gbp/Usd) comporta l’obbligo di effettuare una doppia conversione, ovvero convertire entrambe le valute in euro per poi calcolare il differenziale fra le due.
Nel caso delle criptovalute, la tassazione dei cambi incrociati genera delle complessità enormi. Infatti, proprio perché non si tratta di valute aventi corso legale, non esistono cambi ufficiali sui circuiti dei mercati regolamentati. Di conseguenza, per effettuare i conteggi occorre necessariamente ricorrere ai cambi degli exchange, che sono spesso diversi fra loro. Non a caso, una delle attività che si sta diffondendo nel mondo delle criptovalute sono gli arbitraggi, ovvero comprare un tipo di criptovaluta su un exchange a un prezzo più basso per rivenderla su un altro exchange a un prezzo più alto. Evidentemente occorre riferirsi al cambio dell’exchange sul quale la criptovaluta scambiata è depositata.
Per ovviare al problema, le Amministrazioni finanziarie di altri Paesi, come quella svizzera, offrono le quotazioni ai fini fiscali anche delle principali criptovalute. Tuttavia, la grande maggioranza delle criptovalute non ha un controvalore in euro. Più frequentemente in dollari, ma in molti casi neanche. Per altro, molte criptovalute non possono essere scambiate in valute fiat, ma devono essere acquistate con altre criptovalute. Ciò ha portato una parte della dottrina (es. F. Avella, L’applicazione dell’Irpef alle criptovalute come valute estere, in Bitcoin e criptovalute de Il Sole 24 Ore di Maggio 2021) a ritenere che le plusvalenze debbano essere calcolate solo al momento in cui le criptovalute sono convertite in valute fiat, come avviene ad esempio in Francia, dove le criptovalute sono assimilate a beni intangibili.
Sotto molti profili, le criptovalute non hanno un valore intrinseco e hanno una spendibilità estremamente limitata, che per altro essendo assimilata a un prelievo genera un evento imponibile. Di conseguenza, il loro valore è solo virtuale fino a quando non sono convertite in valute fiat. Ciò è ancora più vero se si pensa alla enorme volatilità che da sempre le contraddistingue. La posizione dell’Agenzia delle Entrate appare dunque in antitesi con il principio costituzionale di capacità contributiva.
Ad accentuare le difficoltà negli adempimenti vi è anche la totale mancanza di indicazioni ai fini degli adempimenti sul monitoraggio fiscale (quadro Rw del modello Unico Pf). Ad esempio, solo dal 2019, le istruzioni alla dichiarazione fiscale hanno preso atto della impossibilità di indicare lo Stato estero in cui sono detenute le criptovalute e di conseguenza è possibile lasciare vuota la relativa casella. Allo stesso tempo le istruzioni sono state aggiornate per inserire le criptovalute nella voce “altre attività finanziarie all’estero e valute virtuali” (codice 14). Le criptovalute non sono state invece inserire nella voce valute estere da depositi e conti correnti (codice 5), posto che a differenza di queste ultime le criptovalute non sono detenute tramite il circuito bancario. Difatti non sono neppure soggette all’Imposta sul valore delle attività finanziarie estere (Ivafe), pari allo 0,2% del valore. Ciò avvalora la tesi che le criptovalute non possano essere assimilate alle valute fiat ai fini delle imposte dirette, posto che sono imponibili “le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di valute estere rivenienti da depositi e conti correnti” (art. 67, c. 1-ter Tuir).
Tuttavia, in caso di errata compilazione del quadro Rw, le sanzioni sono molto pesanti atteso che variano da un minimo del 3% a un massimo del 30% del valore non dichiarato per anno.
Sotto questo profilo, si apre un altro fronte di incertezza, ovvero come ricostruire il valore da indicare in Rw. Anzitutto, si pone il problema di stabilire se sia sufficiente indicare il valore al 31 dicembre oppure se debba essere indicato il valore delle criptovalute sulla base della giacenza per ogni valuta e per ogni exchange o wallet in coerenza con l’assimilazione alle valute fiat estere.
Da più parti si ritiene che sia possibile avvalersi della semplificazione offerta all’epoca delle volutary disclosure e indicare la massa delle valute detenute all’estero mantenendo un dettaglio a parte da esibire alle autorità in caso di richiesta.
Un altro aspetto importante è il criterio sulla base del quale valorizzare le criptovalute. Posto che si tratta di valute non scambiate su un mercato regolamentato, il criterio più logico sarebbe quello del costo (si veda in tal senso F. Andreoli e A. Busani, Sul monitoraggio del bitcoin cercasi semplificazione, sul Sole 24 Ore del 8.02.2018). Non si può però escludere che il valore della quotazione sull’exchange alla fine dell’anno possa essere utilizzato.
Altri dubbi riguardano il regime fiscale del lending e dello staking – attività sempre più diffuse – nonché il trattamento ai fini delle imposte successione e donazione o i confini entro i quali l’operatività non possa configurare attività di impresa.
Data l’entità delle sanzioni, sarebbe auspicabile una presa di posizione formale da parte dell’Agenzia delle Entrate sui punti sopra.
Al semplice investitore conviene senza dubbio operare in criptovalute tramite strumenti sintetici quali gli Etn o i certificati così da non incorrere nelle incertezze illustrate, a fronte però di un ulteriore rischio di controparte, costi di gestione, minore trasparenza in termini garanzia del sottostante e non da ultimo, l’impossibilità di spenderle o convertirle.
Per coloro che non vogliono o non possono utilizzare strumenti alternativi spesso non resta altra strada che trasferirsi in Stati dove il regime fiscale è più chiaro oppure dove le plusvalenze non sono tassate del tutto.
Sotto quest’ultimo profilo, il regime fiscale delle cripto-valute sta diventando anche una forma di concorrenza fra Stati al fine di attrarre nuovi Hnwi ‘virtuali’.
Ad esempio, la Svizzera attrae tali individui perché come regola generale non tassa i capital gain realizzati nella sostanza privata, cioè quella parte di patrimonio non impiegata in un’attività di impresa. A questo si aggiunga che alcuni cantoni hanno creato degli hub per attrarre iniziative imprenditoriali nell’ambito delle criptovalute. Il cantone Zugo, ad esempio, ha creato una vera e propria crypto valley. Anche il canton Ticino ha accolto iniziative in questo settore. Inoltre, per i soggetti che si trasferiscono in regime globalista, cioè con la tassazione forfettaria basata sul dispendio, le criptovalute sono considerate sostanza estera non imponibile, salvo che non siano di fonte svizzera.
In conclusione, l’approccio dell’Agenzia delle Entrate con le complessità e le incertezze che ne conseguono in tema di tassazione delle criptovalute ha l’effetto di allontanare gli investitori esteri del settore e di spingere gli investitori italiani a trasferirsi all’estero in Paesi che non solo hanno una tassazione più chiara e spesso più mite, ma che stanno anche investendo sulla crescita del settore.