Pur in assenza di dati ufficiali si stima che oltre 100 milioni di persone al mondo possiedano criptovalute. Ebbene, in particolare in Italia, all’innegabile diffusione della valuta virtuale non ha ancora fatto seguito una specifica cornice normativa
Quando si parla di criptovalute non bisogna trascurare o sottovalutare gli aspetti fiscali che vengono in rilievo. In particolar modo con riferimento agli obblighi dichiarativi
Si tratta di valute virtuali e crittografate, generate da emittenti privati e scambiate esclusivamente per via telematica, in quanto prive di consistenza fisica.
Ebbene, la mancanza di un’adeguata cornice normativa, volta a disciplinare le cryptocurrencies, genera certamente delle lacune; anche dal punto di vista fiscale. E invero, stante l’assenza di una specifica disciplina domestica, occorre fare riferimento agli orientamenti prodotti, di volta in volta, dai documenti ufficiali emessi dalle organizzazioni internazionali o dalle risoluzioni e dai chiarimenti resi dalle amministrazioni governative.
Al riguardo, per provare a fare il punto sul trattamento fiscale delle criptovalute è utile soffermare l’attenzione, preliminarmente, sul documento dell’Ocse, denominato Taxing Virtual Currencies: An Overview of Tax Treatments and Emerging Tax Policy Issues.
Il documento in questione, sviluppato attraverso la partecipazione di oltre 50 giurisdizioni di Paesi membri Ocse, analizza alcune implicazioni fiscali legate alle valute virtuali, individuando – tra le altre cose – i principali fatti impositivi che vengono in rilievo e il modo in cui, dette monete, si inseriscono nei sistemi fiscali esistenti.
Con riferimento ai fatti impositivi occorre prendere in considerazione il “ciclo di vita” della moneta virtuale. Ogni singola fase (dall’emissione al trasferimento) è, infatti, potenzialmente idonea a generare conseguenze fiscali.
Pur dovendo considerare il fatto che ogni moneta virtuale è diversa e può rispondere a criteri di generazione e emissione differenti, si deve distinguere – in linea generale – tra la fase di creazione (altresì detta mining), la fase di stoccaggio (che prevede operazioni sull’e-wallet) e la fase di scambio (che avviene con una rete peer-to-peer o mediante la partecipazione di terzi intermediari).
Le caratteristiche inerenti il ciclo di vita, influiscono sul modo in cui i diversi Paesi categorizzano le criptovalute ai fini fiscali.
In questo senso, come emerge dal documento Ocse in oggetto, ogni Stato adotta un approccio diverso: ci sono Paesi che si riferiscono alle criptovalute come fossero beni immateriali, altri ritenendole materie prime o strumenti finanziari; altri ancora considerandole alla stregua di monete a corso legale estero.
Venendo agli obblighi fiscali a carico del contribuente, in ossequio alla pur frammentata normativa domestica di riferimento, in Italia, è previsto che nel caso in cui lo scambio di criptovaluta sia effettuato in ottica speculativa, e abbia generato guadagno, questo rileverà ai fini delle imposte sul reddito. In particolare, l’Agenzia delle entrate, ha chiarito che, poiché le criptovalute detenute al di fuori del regime di impresa, possono generare un reddito diverso, sono tassabili in base ai principi di cui all’articolo 67 Tuir.
Per tale ragione, il detentore di criptovalute, o l’investitore, dovrà pagare un’imposta pari al 26% per i guadagni ottenuti mediante le criptovalute, laddove la plusvalenza ecceda la soglia di 51.646 euro. Altrimenti detto, gli individui che detengono monete virtuali per un valore inferiore alla soglia indicata, non sono soggetti a imposizione fiscale.
Quando agli obblighi dichiarativi, i soggetti residenti in Italia che detengono criptovalute – come, del resto, confermato da una recente pronuncia del Tar del Lazio con sentenza n. 1077/2020 – sono tenuti alla segnalazione delle stesse nella predisposizione del modello redditi, compilando il Quadro RW; in ossequio alla disciplina sul monitoraggio fiscale che si applica ai detentori di strumenti finanziari esteri.