È prassi infatti nel settore cinematografico stipulare un contratto che preveda la suddivisione del compenso in due parti: una destinata a remunerare la prestazione professionale artistica in sé – in questo caso la recitazione – l’altra l’utilizzo dell’immagine dell’attore attraverso la riproduzione e trasmissione del film.
La citazione dell’art. 2579 del codice civile e il rinvio alla legge sulla protezione del diritto d’autore con riferimento all’equo compenso citati nella risposta dell’Agenzia delle Entrate non aiutano poi a risolvere il caso, essendo l’equo compenso di cui all’art. 80 collegato a una fattispecie del tutto diversa da quella sottoposta all’esame.
In realtà già il quesito oggetto dell’interpello n. 139 poteva ben far intendere che sarebbe stato impossibile allocare il compenso in modo distinto: la cessione del diritto di immagine che avviene per effetto della prestazione dell’attore è necessariamente implicita.
Non esiste alcuna separazione tra prestazione professionale e utilizzo dell’immagine: per un attore la propria immagine è imprescindibilmente connessa alla prestazione stessa. È evidente come non sia possibile slegare lo sfruttamento dell’immagine dell’attore mentre recita, dalla recitazione stessa; per tale ragione il compenso derivante dall’interpretazione del film non può essere attribuito separatamente.
È evidente che l’attore non produce alcuna opera, quanto piuttosto interviene su un’opera già esistente.
La recitazione in poche parole non è un’opera, ma una semplice prestazione: non ha una vita autonoma rispetto all’immagine dell’attore stesso, cosicché la remunerazione collegata alla cessione del diritto dell’immagine per effetto della riproduzione e diffusione cinematografica non avrebbe potuto avere una natura diversa rispetto a quella connessa alla prestazione stessa.
Né parrebbero diverse le conclusioni in caso di cessione esclusiva del diritto di immagine per sfruttamento a fini promozionali, salvo potersi qualificare l’immagine come un marchio.