Come ben sappiamo, le regole del diritto successorio, in assenza di pianificazione, tendono a creare, ad ogni successione, quote di partecipazione frazionate e di entità variabile in funzione del numero degli eredi e del loro grado di parentela col rispettivo de cuius. Questo fenomeno crea equilibri di potere instabili, con la possibilità di formazione di maggioranze “mobili”, a seconda delle situazioni, oppure minoranze con quote sostanziali totalmente escluse dai processi decisionali.
Un aspetto tra i più rilevanti in questi casi è trovare il giusto equilibrio tra rappresentatività e capacità decisionale afferente ai vari membri della famiglia e, in prospettiva multigenerazionale, ai loro rami famigliari, all’interno dell’organo decisionale della società di famiglia, senza al contempo andare a scapito del merito, dell’efficienza o della tutela di interessi particolari. In tal senso, la legge consente approcci estremi: si può improntare l’assetto decisionale all’unanimità o, in senso diametralmente opposto, al voto determinante del singolo, non solo nei classici casi di stallo (il cosiddetto “casting vote”) ma come regola generale di deliberazione.
Da un lato, è infatti possibile costruire una governance societaria intorno al principio per cui tutte o almeno determinate decisioni possono richiedere per statuto il voto favorevole di tutti gli amministratori in carica. Ben più efficace sembra essere la previsione che, per talune decisioni, possa essere richiesto il consenso di tutti i consiglieri di amministrazione, così chiamati ad assumersi la paternità e quindi la responsabilità di determinate decisioni sensibili (si pensi ad un investimento oneroso o alla vendita di un bene rilevante).
È, dall’altro lato, possibile attribuire rilevanza, sempre nel rispetto dei quorum previsti dallo statuto, al voto – favorevole o contrario -, di uno o più determinati amministratori, individuati in virtù della “provenienza” della loro nomina, vale a dire in funzione del socio che lo designa come suo “campione” o della loro appartenenza ad un ramo famigliare (anche di minoranza, mediante le tecniche delle categorie di azioni, del voto di lista o dei diritti particolari nella srl) ovvero altro criterio oggettivo ritenuto qualificante, come ad esempio l’età, l’anzianità di presenza nel Cda o l’esperienza nel settore economico di riferimento. In tal modo, è possibile attribuire all’amministratore espresso dai portatori di determinati interessi rilevanti il voto determinante su talune delibere, ritenute particolarmente importanti per tale socio o gruppo di soci.
Queste scelte si possono tradurre in un meccanismo di “voto favorevole determinante”, per cui non è più sufficiente una prevalenza dei voti favorevoli (da chiunque provengano) ma occorre che tra i voti favorevoli si registri quello dell’amministratore in questione. In alternativa, si può optare per un diritto di veto, per cui se anche la maggioranza prevista vota a favore di una decisione, se tra i contrari risulta il voto dell’amministratore “determinante” la decisione non è adottata.
Consideriamo infine che la legge consente allo statuto di derogare al principio maggioritario (deliberazioni del consiglio di amministrazione prese a maggioranza assoluta dei presenti, che si ottiene quando i voti favorevoli sono superiori all’insieme dei voti contrari e delle astensioni) prevedendo quorum rafforzati (ad esempio maggioranza assoluta dei consiglieri ovvero innalzamento della soglia rispetto ai soli presenti sopra il 50 + 1%, o con un misto di entrambe le tecniche) ovvero quorum ridotti (ad esempio, quando si preveda l’ininfluenza delle astensioni, cioè quando la deliberazione è assunta se i voti favorevoli sono superiori ai voti contrari, ma non anche alla somma dei voti di contrari e astenuti). All’interno di questo ventaglio di possibilità, è possibile tentare di conciliare “inclusione” e “meritocrazia” nell’azienda di famiglia.
(Articolo tratto dal magazine We Wealth di maggio 2022)