Provate a dire “derivati cartolarizzati” in una conversazione con un investitore italiano e difficilmente otterrete la sua attenzione. A meno che dopo non si aggiungano due parole di sicura presa: “capitale protetto”. I certificati (o certificates) sono anche questo: strumenti di protezione del capitale, ma non solo. E’ un universo vasto nel quale gli investitori finali privi di una solida preparazione finanziaria faticherebbero a orientarsi. Non è raro imbattersi in comunicazioni promozionali, spinte dagli emittenti su vari canali, o in bocciature senza appello sul tema dei certificati: possono essere davvero utili ai consulenti per costruire i portafogli dei loro clienti? We Wealth l’ha chiesto a quattro osservatori indipendenti che, con i certificati, si sono sporcati le mani: Rocco Probo (Consultique Scf), Matteo Cadei, Andrea Bosio (Aegis Scf) e Edoardo Mancinelli Scotti (HCinque Financial Advisor).
Il dato di fatto è che il mercato dei certificati, in Italia, mostra una tendenza di crescita e, solo nel 2022, ha generato emissioni pari a 16,2 miliardi di euro: il valore più alto di sempre dopo quello registrato nel 2019 (17, 1 miliardi). Secondo i dati dell’Associazione italiana certificati (Acepi) il 60% dei certificati emessi l’anno scorso rientravano nella categoria a capitale protetto e un altro 23% in quella a capitale condizionatamente protetto.
Cerfificati, breve identikit
Le caratteristiche fondamentali del certificato sono il fatto che il suo rendimento derivi dalla performance di uno o più sottostanti (indici, azioni o altro), secondo condizioni che sono di volta in volta specificate nel contratto. La variabilità di queste condizioni può spesso generare confusione, anche perché ciascun emittente usa etichette diverse per promuovere il suo prodotto. Oltre a questi aspetti, va considerato che avere in portafoglio un certificato non equivale al possesso diretto delle attività sottostanti, ma è un rapporto fra l’investitore e la società che ha emesso il prodotto – per questo, se l’emittente dovesse risultare insolvente, il certificato sarebbe trattato come un’obbligazione, con la possibile perdita dell’investimento. Anche per i certificati a “capitale protetto”, dunque, la protezione è subordinata alla solidità finanziaria dell’emittente.
Ultimo aspetto, tutt’altro che secondario, è il trattamento fiscale dei certificati i cui rendimenti sono considerati “redditi diversi”: il che li rende utili per la compensazione di minusvalenze registrate su fondi comuni ed Etf. Come vedremo, alcuni consulenti considerano determinante questa caratteristica nella scelta di inserire certificati in portafoglio.
Certificati, quali utilizzare con maggior frequenza (e quali evitare)
“Il mondo dei certificati è molto vasto e vi operano diversi intermediari”, ha dichiarato Rocco Probo di Consultique, “le tipologie di prodotti sono tante, con ovvie differenze in termini di funzionamento, e cambiano molto i nomi commerciali assegnati a prodotti fra loro simili da parte dei diversi intermediari, il che aggiunge ulteriore difficoltà nella comparazione e nella valutazione”.
“Se volessimo ridurre tutto ai minimi termini, potremmo comunque distinguere i certificates in quattro grandi categorie: ovvero i prodotti a capitale protetto, i prodotti a capitale condizionatamente protetto, i prodotti a capitale non protetto e i prodotti a leva”.
Tutti e quattro gli intervistati concordano sul fatto che, fra queste diverse categorie, molte possano rivelarsi utili nella costruzione di un portafoglio d’investimento, come vedremo più nel dettaglio. La tipologia evitata nella gran parte dei casi, però, è quella dei certificati a leva – che moltiplicano i rischi e la potenziale volatilità dello strumento. “Sono difficili da ricondurre nei profili di rischio tollerati dai clienti e, nel caso l’investimento andasse male, sarebbe difficile spiegare come mai un determinato certificato sia andato a zero”, ha dichiarato Mancinelli Scotti di HCinque.
Sul mercato, poi, ci sono anche certificati a capitale condizionatamente protetto che offrono cedole generose, “ma che presentano sottostanti rischiosi” e che potrebbero scendere al di sotto delle soglie entro le quali il capitale è protetto (le cosiddette barriere). Quella dei certificati è una materia nella quale il fai-da-te dell’investitore finale è particolarmente rischioso, perché le variabili da considerare sono molteplici, ha affermato Mancinelli Scotti. Questo genere di considerazioni diventa prioritario quando ci si trova nell’area grigia di un prodotto che offre la protezione del capitale, ma non in tutti i casi. Come capire quanto è forte la protezione offerta e quanto sia più o meno probabile che “salti via”?
“I certificati a capitale condizionatamente protetto consentono di beneficiare del rialzo dell’attività sottostante e allo stesso tempo possono proteggere il capitale investito. Questo ovviamente a condizione che il valore del sottostante non raggiunga un determinato livello barriera”, ha spiegato Matteo Cadei di Aegis Scf, “qualora il valore del sottostante raggiungesse il livello barriera viene meno la protezione del capitale investito e lo strumento finanziario si comporterebbe come un certificato senza capitale protetto”.
“Ad esempio, una barriera al 60% significa che in caso di ribasso del sottostante pari o superiore al 40% l’investitore perde la garanzia del capitale”, ha aggiunto Cadei, “di conseguenza tra i fattori principali da analizzare per valutare l’inserimento in portafoglio ci sono la tipologia della barriera (monitorata in modo continuo o discreto cioè alla scadenza), l’ampiezza della barriera stessa e la volatilità del sottostante”.
Nel paniere di sottostanti, che determinano l’eventuale violazione della barriera, non è così raro vedere titoli ‘sospetti’, le cui valutazioni sono molto più elevate rispetto a quelle degli altri titoli presenti nel paniere e che potrebbero incrementare le possibilità di un brusco calo. E’ il caso dei certificati che, nel 2021/22, avessero incluso uno o più titoli tecnologici ad alto rischio di correzione. Sono costruzioni tutt’altro che casuali, che permettono con maggiore probabilità all’emittente di portare a casa un profitto (a discapito dell’investitore), ha dichiarato Mancinelli Scotti. Questi avvertimenti indicano che prudenza e professionalità sono imperativi nella selezione dei certificati, in particolare quando i sottostanti sono singoli titoli.
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Come sfruttare con profitto i certificati
I quattro consulenti raggiunti da We Wealth concordano sull’utilità dei certificati dalla costruzione più semplice. “Tra le principali strutture si possono citare i benchmark certificates”, ha dichiarato Probo, “si tratta di strumenti che come gli Etf replicano un indice, seppur con livelli di liquidità più scarsi, e con il rischio-emittente di cui si è detto sopra”. Perché preferire un certificato che offre le stesse caratteristiche di un Etf, ma con maggiori costi e minore liquidità? E’ qui che le considerazioni fiscali diventano determinanti.
Nel sistema fiscale italiano i rendimenti di alcuni profitti di tipo finanziario sono considerati redditi di capitale (dividendi, cedole, plusvalenze su fondi ed Etf), altri invece redditi diversi (minusvalenze sui fondi/Etf, plus e minusvalenze su singoli titoli azionari e obbligazionari). Le minusvalenze possono essere compensate solo all’interno della categoria dei redditi diversi, con lo spiacevole inconveniente di non riuscire a “sfruttarle tutte”, pagando così più tasse. “Gli investimenti in certificati offrono un vantaggio da un punto di vista fiscale, poiché i rendimenti cedolari e in conto capitale, generati dall’investimento in questi strumenti, vengono considerati come redditi diversi”, ha affermato Cadei. “Significa che esiste la possibilità”, ha proseguito il consulente, “di poter compensare eventuali minusvalenze”, derivanti dalla vendita di quote di fondi comuni o Etf – i prodotti più diffusi nei portafogli costruiti dai professionisti.
Le perdite subite sui mercati nel 2022, ha raccontato Mancinelli Scotti, hanno reso particolarmente appetibili i certificati in questa fase di mercato, perché i guadagni prodotti dai certificati nei prossimi quattro anni potranno essere compensati fiscalmente con le minusvalenze che hanno colpito il portafoglio nel 2022. Attenzione, però, “esistono diverse categorie di certificati e non tutte possono essere utilizzate se lo scopo è la compensazione delle minusvalenze”, ha sottolineato Cadei, “ne consegue che il supporto professionale di un consulente finanziario indipendente risulta fondamentale per aiutare il cliente/investitore a capire se i certificati (soprattutto quali) possano essere inseriti o meno nella pianificazione finanziaria complessiva”.
Oltre ai certificati “benchmark” un’altra categoria da considerare “sono i certificates digitali: possono essere paragonati ad obbligazioni corporate la cui cedola, essendo aleatoria, potrebbe generare un rendimento superiore alla media”, ha affermato Probo, “alla scadenza, come nel caso delle obbligazioni, rimborsano il capitale nominale, limitando quindi potenziali perdite”.
Mancinelli Scotti considera utili i certificati che offrono cedole di questo tipo in quanto sostengono “l’obiettivo di avere un po’ meno volatilità con rendimenti cedolari fiscalmente compensabili e tendenzialmente superiori a quelli obbligazionari”.
I certificati a capitale condizionatamente protetto, infine, possono offrire una performance positiva anche in caso di leggeri ribassi dei mercati finanziari. Con un’attenta analisi dei rispettivi sottostanti, questi ultimi certificates possono essere presi in considerazione, specie in una fase in cui si può considerare smaltito il peggio del mercato “orso”.
“In generale, Consultique tende a preferire strutture semplici, senza condizionalità aggiuntive come ‘worst of’, ‘best of’ e altri elementi che complichino la valutazione dei rendimenti attesi”, ha affermato Probo. Oltre al problema della complessità, “l’errore più banale che si possa commettere”, ha concluso Mancinelli Scotti, è quello di “comprare più certificati dai sottostanti simili”, con il rischio che possano cadere simultaneamente. Meglio diversificare non solo i certificati, ma anche i relativi sottostanti, acquistandoli da diversi emittenti per minimizzare il rischio di insolvenza.