Perché collezionare videoarte? Bill Viola (1951-2024) può essere un’ottima ragione. A patto che si possa, come si vedrà più avanti. I lettori più attenti ne ricorderanno la retrospettiva a Palazzo Reale (Milano, 2022-2023) o qualche liquida e potente installazione in grado di scuotere esposizioni collettive, come The Raft a Palazzo Ducale in ‘Venetia 1600’ (Venezia, 2021-2022). ‘Liquida’ non a caso: l’acqua è un elemento primigenio di Viola, il liquido amniotico che – traumaticamente – lo ha generato come artista.
Ha circa sei anni Bill, quando rischia di annegare in un laghetto. Quell’evento costituirà una pietra miliare della sua poetica: il bambino torna in superficie, e con lui affiora l’attrazione per le immagini mediate. Dirà Viola qualche anno più tardi che, passato lo spavento, di quell’esperienza onirica avrebbe ricordato le luci e i colori della visione subacquea. L’artista newyorkese di origini lombardo-sicule è l’unico ad aver lavorato direttamente col video senza esser passato da altri media. La sua opera è uno dei capisaldi di questa arte ipnotica e (quasi) effimera nella sua collocazione storica.
“Il video è stato il suo mezzo di scrittura”, puntualizza la studiosa Valentina Valentini, autrice di Bill Viola, tecnologie dell’intangibile (Postmedia Books, 2024) e protagonista di questo colloquio. Viola affascina perché “ha svelato che la tecnologia è un modo per accostarsi al proprio spazio interiore”.
Professoressa Valentini, come e perché collezionare Bill Viola?
Per il fatto di essere immateriale, l’arte video è in contraddizione con il concetto stesso di collezionismo. È paradossale pensare di poterla collezionare: un video monocanale di Bill Viola si trova su YouTube o comunque online. Discorso diverso per le installazioni multimediali: in questo caso generalmente un artista ne rende commerciabili un numero fisso, dopo essersene tenuta una per sé. Si pensi al San Giovanni della Croce (1983): consiste di uno schermo, un box di legno, la proiezione di due video. Ne ho vista una nella cappella di un castello privato. Arte video e collezionismo restano tuttavia un paradosso laddove si tenti di conciliarli.
Facendo finta che tutti abbiamo un castello… Perché collezionarlo?
Vorrei partire dalla ‘svolta’ di Bill Viola, ufficializzata con la Biennale di Venezia del 1995. L’artista aveva esposto nel padiglione Usa un ‘quadro in movimento’, The Greeting (cortometraggio, 10’, ndr), ispirato a La Visitazione del Pontormo (1494-1556). È qui che Viola inizia a prendere in prestito soggetti dal mondo della pittura. Non è più l’artista antropologo che in solitudine e senza l’ingombrante apparato cinematografico viaggiava con la sua telecamera a mo’ di penna stilo. Comincia a costruire veri e propri set con green screen, performer. Ma il video in origine aveva qualità che lo ponevano in antitesi con il cinema e la tv, era un ibrido che non aveva un suo luogo preciso. Il linguaggio videografico era stato capace di creare una iconosfera molto diversa da tutto il resto: non possedeva linearità narrativa, trame, storie; le sue durate non aderivano a nessuno standard produttivo. Da quel momento, Bill Viola si allinea ai procedimenti cinematografici e a una iconografia più leggibile alla luce della storia dell’arte. Ma la sua prima modalità di lavorare era più pertinente e congeniale al mezzo elettronico. Perché collezionare Bill Viola? Non è minimalista, non è postmoderno. La sua è un’estetica che rimette al centro la figura umana; ne rende rappresentabile lo spazio psichico, la spiritualità, la memoria, rifuggendo dalla convenzionalità del cinema.
La mostra del 2023 a Palazzo Reale.
Lui era ormai molto malato. La forte impronta di sua moglie Kira Perov ne ha fatto un’esposizione dalla lettura facile e commerciale. Del resto, i critici e gli storici sono stati in grado di parlarne solo quando lui ha iniziato a rappresentare soggetti ‘facili’ per la storia dell’arte. Prima lo studiava una minoranza ‘ibrida’ di studiosi a metà fra cinema e teatro. Con quella mostra Kira Perov ha narcotizzato ciò che era stato prodotto dal marito nella sua prima fase artistica, dando una lettura parziale dell’artista. Non dico che lo abbia tradito, ma se si assolutizza solo l’ultima parte della sua produzione, si perde completamente il significato dell’opera di Bill Viola.
Allora diciamo qualcosa del primo Bill Viola.
The reflecting pool, del 1977. La si può guardare 10, 20 volte. È il manifesto dell’arte elettronica: mette a confronto lo spettatore con la temporalità, la durata, il guardare senza la voracità di dover sorbire lo scorrimento delle immagini. Sembra che non accada nulla, se non fosse per delle leggere increspature sull’acqua. Ci si mette in ascolto con la sensazione che qualcosa all’improvviso possa manifestarsi. Data l’apparente staticità dell’immagine, si aguzza la propria facoltà percettiva, che così diventa materica.
Cosa ne è oggi dell’arte video?
Con il digitale è quasi diventato incongruo parlare di video arte, se non storicizzandola. Quando è nata, in alcuni momenti ha persino vissuto l’illusione di poter penetrare e modificare la tv. Una pia illusione, durata pochissimo. La stagione dell’arte video è stata molto breve, dai primi anni ’70 agli anni ’90. Con il digitale c’è stata omogeneizzazione, e nessun artista ha più voluto definirsi videomaker per il medium che utilizzava. C’è stato un ritorno regressivo al cinema, che ha cannibalizzato i video e la sperimentazione elettronica del linguaggio visuale. Di quella stagione c’è rimasto ben poco. Di Godard e Wenders non ce ne sono più.
In ottica collezionistica e non solo, come conservare l’arte video?
Lo chiediamo a Isabella Villafranca di Open Care. “La conservazione dell’arte contemporanea, in generale, pone sfide non solo teorico metodologiche ma anche tecniche e scientifiche, in continua evoluzione”, risponde la conservatrice e studiosa. “Per quanto riguarda la conservazione delle opere d’arte definite New Media, la sfida maggiore è il tempo: le tecnologie sono soggette ad obsolescenza ed evolvono a ritmo incessante. Pertanto, sarà necessario riversare costantemente l’opera per mantenere le informazioni in formato digitale, mantenendo l’originale. In questo caso la conservazione è corale e richiede di considerare la volontà dell’artista, affidandosi ad un conservatore di new media e a dei tecnici specializzati”.

La professoressa Valentina Valentini