L’ingresso nel mondo del lavoro è un indice rivelatore dell’autosufficienza del figlio
Una retribuzione adeguata, pur se temporanea, permette, a certe condizioni, di sollevare dall’obbligo di mantenimento il genitore tenuto a versare un assegno periodico al figlio
Mantenere, istruire ed educare i propri figli, secondo le
inclinazioni e le ispirazioni degli stessi, non è soltanto un precetto di
natura morale, ma è anche un vero e proprio obbligo che i genitori devono
osservare, ai sensi, tra gli altri, dell’art. 30 Cost., e dell’art. 147 del codice
civile.
Questo obbligo, inoltre, non si esaurisce – per così dire –
immediatamente al raggiungimento della maggiore età del figlio. Il dovere di
mantenere la prole, infatti, si protrae anche nei confronti del figlio
maggiorenne nel momento in cui lo stesso non è ancora economicamente
indipendente.
È bene chiarire, però, che l’obbligo di mantenimento del
figlio, mediante, ad esempio, il pagamento di un assegno periodico, il cui
obbligo ricade su di un solo genitore, e la cui sostanza è stabilita da un
giudice, non si protrae all’infinito.
Occorre, infatti, comprendere caso per caso alcuni fattori,
che concernono tanto la (mutevole) capacità economica del genitore tenuto alla
prestazione, quanto (la sempre maggiore) autosufficienza del figlio e le
cangianti esigenze di vita di quest’ultimo.
Sul punto, la Cassazione, con la recente sentenza n. 40282
del 2021, è intervenuta per stabilire i confini a partire dai quali può dirsi
legittimamente non dovuto l’assegno di mantenimento.
Più nel dettaglio, ad avviso dei giudici di legittimità il
genitore non può essere obbligato al mantenimento del figlio se emerge che
questi ha stipulato un contratto di lavoro, anche a tempo determinato.
Per saggiare l’autosufficienza del figlio, non ha rilevanza la
temporaneità del rapporto di lavoro. Ciò che conta è l’ingresso del figlio nel mondo
del lavoro. Fermo restando che la retribuzione percepita, pur se temporanea,
deve integrare il requisito dell’adeguatezza; vale a dire, deve essere tale da
assicurare al figlio, un’esistenza libera e dignitosa.
Per la Suprema Corte il fatto che il rapporto di lavoro sia
disciplinato con un contratto a tempo determinato consente al genitore di
interrompere la corresponsione dell’assegno e, tendenzialmente, impedisce l’insorgere
di un nuovo obbligo a carico del genitore alla conclusione del rapporto di
lavoro nell’ipotesi in cui non sia rinnovato il contratto.
Infatti, sottolineano i giudici, il rischio che il rapporto di
lavoro, in quanto a tempo determinato, non venga rinnovato alla sua scadenza
naturale, può essere assimilato al caso in cui il lavoratore a tempo
indeterminato venga licenziato oppure al caso in cui il figlio intraprenda come
imprenditore un’attività di impresa con esito negativo.
La Suprema Corte evidenzia l’importanza della retribuzione
adeguata e il fatto che il figlio sia inserito nel mondo del lavoro: la
circostanza che il figlio abbia iniziato a lavorare è già di per sé fatto
sufficiente a far cessare l’obbligo di mantenimento che grava a carico del
genitore, in quanto l’inizio del rapporto di lavoro rivela l’esistenza di una
capacità lavorativa ideona a “determinare l’irreversibile cessazione
dell’obbligo in questione”.
Chiaramente, questo orientamento espresso della Corte, deve
essere valutato caso per caso. Ad esempio, non può considerarsi idoneo a far
cessare l’obbligo di mantenimento un contratto stagionale o un rapporto di
lavoro “a chiamata”: in entrambi i casi, infatti, si tratterebbe di ipotesi che
non garantiscono una stabilità economica.
Diverso ancora è il caso del figlio che, pur nella
possibilità di svolgere un lavoro e di percepire una retribuzione adeguata
stabile e duratura, sistematicamente e colpevolmente, rifiuti le offerte o si
metta nella condizione di non essere assunto. In questo caso, infatti, ad
avviso della Corte, poiché il figlio, pur rifiutando ogni occasione, è posto
nella concreta possibilità di divenire indipendente, il diritto al mantenimento
viene meno.