Dalla polvere alle stelle, si potrebbe dire, in relazione alla scoperta avvenuta negli ultimi giorni presso i depositi della Hampton Court House, dimora reale situata a Londra. Un quadro in cattive condizioni conservato da oltre 100 anni e attribuito genericamente alla Scuola della pittura francese è stato recentemente identificato dallo studioso d’arte Niko Munz come uno dei 7 dipinti di Artemisia Gentileschi facenti parte della collezione di Re Carlo I (1600-1669).
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Il nuovo dipinto attribuito ad Artemisia Gentileschi
La scoperta è stata annunciata dal Royal Collection Trust, da tempo impegnato nella ricerca delle opere d’arte disperse nel tumultuoso periodo storico che portò lo stesso Re Carlo sul patibolo e la sua collezione allo smembramento. Fino ad oggi si riteneva che l’unico quadro della Gentileschi sopravvissuto nelle collezioni reali fosse Autoritratto come allegoria della pittura e mai ci si sarebbe aspettati di trovare un simile tesoro “in soffitta”.
Si tratta di Susanna e i vecchioni, soggetto tanto caro all’artista, che ne realizzò almeno altre 6 versioni durante la sua lunga carriera nelle principali città d’arte del tempo – tra cui Londra – dove lavorò col padre Orazio per conto della famiglia reale nel periodo compreso tra il 1593 e il 1653, realizzando tra l’altro le decorazioni dei soffitti della Queen’s House a Greenwich.
Il soggetto che richiama un vissuto personale
Il quadro in questione rappresenta un episodio dell’Antico Testamento che vede protagonista la vergine Susanna mentre viene importunata da due anziani che la sorprendono mentre fa il bagno e la minacciano di accusarla pubblicamente di infedeltà qualora non accetti le loro avances; se la tendenza dei pittori maschili del tempo era quella di raffigurare la scena in modo idealizzato, Artemisia offre una prospettiva inedita dipingendo la ragazza sdegnata e profondamente a disagio per le non desiderate attenzioni che i vecchi le rivolgono.
Le tesi a supporto dell’attribuzione
A supporto della tesi che vede proprio la Gentileschi come autrice del quadro, si ricordi che lei stessa fu vittima di violenza sessuale all’età di 17 anni per mano di un collaboratore del padre e subì un infamante processo, durante il quale fu torturata affinché dicesse la verità; per questa analogia con il tema rappresentato nel quadro, diversi studiosi hanno avanzato l’ipotesi che si trattasse di un’opera con una valenza autobiografica.
L’attribuzione di questo dipinto alla Gentileschi è inoltre supportata dai numerosi riscontri che si ritrovano nelle altre opere dell’artista e che confermano la prassi attestata sia nel padre che nella figlia di riutilizzare figure umane adattandole a seconda del quadro.
È stata fatta notare ad esempio la somiglianza della testa di Susanna con quella di Santa Caterina di Alessandria, opera di Artemisia oggi conservata a Stoccolma; e ancora il modello del viso dell’anziano col turbante sembra corrispondere a quello utilizzato per una giovane ostetrica nell’opera La nascita di San Giovanni Battista, in esposizione a Madrid. Queste osservazioni non solo sono una conferma dell’attribuzione alla mano della Gentileschi, ma testimoniano inoltre la sua tecnica artistica, basata sul progressivo perfezionamento di modelli riproposti nelle singole opere in base alle esigenze tematiche e stilistiche.
La provenienza del “nuovo” quadro di Artemisia Gentileschi
Sorprendentemente le vicissitudini dell’opera sono ricostruibili con una certa precisione almeno fino alla seconda metà del 1800 e dimostrano senza dubbio l’apprezzamento nei confronti del lavoro della Gentileschi nella Londra del tempo, in quanto fu la stessa regina consorte Enrichetta Maria di Borbone (1609-1669) a commissionare il quadro tra il 1638 e il 1639 e a farlo posizionare nei propri appartamenti privati a Whitehall Palace.
Tale dato trova riscontro nel marchio di Re Carlo I (Carolus Rex) che è venuto alla luce nella parte posteriore della tela in seguito ai lunghi restauri che sono stati necessari per far tornare l’opera ai fasti di un tempo.
Dagli archivi sappiamo che il quadro fu consegnato nel 1660 a Carlo II, successore dell’omonimo padre che lo espose presso la Somerset House.
La precedente attribuzione
Le grazie della famiglia reale perdureranno almeno fino al 1819, dove vediamo l’opera comparire in un acquerello rappresentante la stanza da letto della regina ad Hampton Court Palace, seppur semplicemente appoggiata al muro, possibile indizio del fatto che già ai tempi la corretta identificazione dell’artista era venuta meno o la si riteneva di secondaria importanza, concordemente con il declino che la fama della Gentileschi subì nel XVIII secolo.
Successivamente attribuito a Benedetto Gennari, definito “in cattivo stato” già nel 1862, il quadro è stato oggetto di una profonda attività di restauro da parte del Royal Collection Trust che ha messo in luce i numerosi e grossolani interventi di modifica che l’opera subì nel tempo, tra i quali si segnala una pesante sovra verniciatura che ha stupito gli stessi restauratori, tanto da definire la superficie della tela “quasi completamente oscurata” secondo le parole di una di loro, Adelaide Izat.
Una delle artiste più influenti della sua epoca
Il quadro non solo contribuisce ad arricchire il novero delle opere di una delle artiste più influenti della sua epoca, aggiungendo in particolare dettagli al suo periodo londinese, ma permette inoltre di comprendere quanto significativa e sorprendente possa essere l’attività di ricerca nel mondo dell’arte. Il quadro sarà esposto fino al 29 aprile presso il castello di Windsor accanto all’Autoritratto come allegoria della pittura e Giuseppe e la moglie Putifarre, opera del padre Orazio Gentileschi, in modo tale da poter cogliere nella sua interezza la tecnica di Artemisia, cresciuta nella bottega paterna e fortemente influenzata dalla tecnica del suo maestro.
La dovizia di particolari circa l’opera è volutamente stata illustrata in questo breve articolo, per far comprendere quanto, non solo dal punto di vista giuridico-legale, il supporto delle tecnologie sempre più all’avanguardia (qui, radiografia e riflettografia a infrarossi), ma, più in generale una meticolosa ricerca dei passaggi di provenienza e delle fonti possano contribuire a far luce sulla attribuzione di un oggetto d’arte, parallelamente semplificando le transazioni (commerciali e non) che lo riguardano e deflazionando il cospicuo contenzioso che coinvolge le corti di giustizia, non solo italiane, sul tema della autenticità e su quello dell’attribuzione.
Oggi, in ritardo di oltre un secolo, Susanna e i vecchioni è tornata ad occupare un posto di rilievo nelle collezioni reali: meglio tardi che mai, si direbbe.