Acquistare beni dall’erede (o legatario), ovvero dal donatario, presenta notevoli rischi, sia che si tratti di acquisto a titolo gratuito che oneroso, in ragione della potenziale instabilità degli effetti dell’atto e della possibilità – anche dopo molti anni – di dover restituire il bene in natura all’avente diritto, ovvero di doverne pagare il controvalore, al fine di evitare la restituzione.
Nel caso, poi, di beni immobili o mobili “registrati” (come automobili e imbarcazioni) determinanti, ai fini della salvezza dell’acquisto del terzo, sono anche le tempistiche con cui le formalità pubblicitarie sono state eseguite.
Casi in cui potrebbe venire meno il titolo di acquisto in capo al dante causa
Un primo rischio, per il terzo acquirente, risiede nell’eventualità che – successivamente all’atto in suo favore – venga meno il titolo di acquisto in capo al dante causa.
Si pensi, ad esempio, alle seguenti ipotesi:
- i beni ereditari vengono inizialmente devoluti secondo le disposizioni della successione legittima e solo successivamente si scopre l’esistenza di un testamento, contenente disposizioni incompatibili;
- si accerta che il testamento, in base al quale è stata inizialmente regolamentata la successione, è nullo, apocrifo o revocato da un testamento successivo in precedenza ignoto;
- il testamento viene annullato per incapacità o vizi del volere del testatore. In ipotesi eccezionali, previste dall’art. 463 c.c., l’erede/legatario-venditore potrebbe essere persino dichiarato indegno a succedere al de cuius e privato di ogni diritto.
L’azione di petizione ereditaria
In questi casi, chi risulti essere l’effettivo successore può infatti agire con petizione d’eredità, reclamando i beni non solo nei confronti di chi era stato inizialmente designato come erede o legatario, ma – ai sensi dell’art. 534 c.c. – anche contro i suoi aventi causa, costringendoli a restituire quanto ricevuto, a meno che l’acquisto sia avvenuto a titolo oneroso e i terzi dimostrino la propria buona fede, ovverosia di aver ignorato senza colpa che il loro dante causa non era il vero erede (o legatario).
L’importanza della data di trascrizione degli atti
Inoltre, per quanto attiene ai beni immobili o mobili registrati, è altresì necessario, ai fini della salvezza degli effetti dell’atto a favore del terzo, che la trascrizione dell’atto di acquisto a favore dell’erede/legatario apparente e del successivo trasferimento del bene al terzo siano antecedenti rispetto alla trascrizione, da parte del successore effettivo, del proprio titolo di acquisto ereditario, ovvero della domanda giudiziale promossa contro l’erede/legatario apparente (art. 534, comma 3, c.c.).
L’onerosità dell’atto, fermi tutti gli altri requisiti sopra indicati, non è invece necessaria se il vero successore trascriva la propria domanda giudiziale dopo cinque anni (tre per i beni mobili registrati) dalla data di trascrizione dell’acquisto mortis causa da parte dell’erede/legatario apparente (cfr. artt. 2652 n. 7 e 2690 n. 4 c.c.).
Casi in cui l’acquisto a favore del suo dante causa è lesivo della quota riservata ai legittimari
Ancor più insidiosa, per il terzo, è l’ipotesi in cui l’acquisto a favore del suo dante causa, pur in sé valido, si riveli però lesivo della quota riservata ai “legittimari” (il coniuge, i discendenti e, in mancanza di questi ultimi, anche gli ascendenti). Ciò potrebbe avvenire, ad esempio, perché il defunto non ha ricompreso il legittimario nel proprio testamento, ovvero gli ha attribuito beni di valore inferiore alla quota riservatagli dalla legge, ovvero, anche in assenza di atti di ultima volontà, ha effettuato in vita donazioni aventi un valore eccedente la quota di cui poteva legittimamente disporre.
In tal caso, i legittimari pretermessi o lesi, attraverso la proposizione della cosiddetta “azione di riduzione” (o di “reintegrazione”), possono aggredire non solo le disposizioni di ultima volontà, ma anche le donazioni compiute in vita dal de cuius sino alla reintegrazione dei propri diritti e, a determinate condizioni, recuperare i beni oggetto degli atti lesivi (anche qualora, nelle more, essi siano stati ceduti a terzi).
Un notevole criticità è rappresentata dal fatto che la sussistenza o meno di una lesione di legittima può essere accertata solo dopo l’apertura della successione (dovendo le quote spettanti ai legittimari essere calcolate sul valore a tale data dei beni rimasti nel patrimonio del defunto, dedotte le passività, sommato a quello delle donazioni dirette e indirette compiute dal de cuius) e che i legittimari, per poter agire in riduzione, hanno ben 10 anni di tempo dall’apertura della successione (per quanto riguarda le donazioni), ovvero dall’accettazione da parte del beneficiato (in relazione alle disposizioni testamentarie lesive). Il terzo rischia, pertanto, di vedersi privato del bene anche moltissimi anni dopo la data dell’acquisto in proprio favore (tanto più che la giurisprudenza ha sempre puntualizzato che il possesso utile a un’eventuale usucapione può iniziare a decorrere solo dopo la morte del de cuius, ed è comunque interrotto dal promovimento dell’azione di riduzione).
Il legittimario che abbia visto giudizialmente accertata la lesione dei propri diritti e ottenuto la riduzione degli atti dispositivi a sé pregiudizievoli, attraverso la distinta azione di “restituzione” – promovibile, peraltro, contestualmente a quella di reintegrazione – può quindi recuperare i beni oggetto degli atti lesivi (ovvero conseguirne il controvalore) anche nei confronti degli aventi causa, che si sono resi acquirenti di quei beni.
Ai sensi dell’art. 563 c.c. il legittimario, premessa l’escussione del donatario (ovvero dell’erede/legatario), può infatti chiedere la restituzione anche ai successivi acquirenti, salva la possibilità per questi ultimi di liberarsi dall’obbligo di restituire il bene in natura, pagandone il controvalore.
Qualora l’atto abbia avuto a oggetto beni mobili, il terzo fa salvo il proprio acquisto se esso è avvenuto a titolo oneroso e in buona fede (secondo la tradizionale regola “possesso vale titolo” di cui all’art. 1153 c.c.): Per quanto riguarda invece i beni immobili, in base all’attuale formulazione della disposizione, va operata una distinzione:
(a) se non sono decorsi 20 anni dalla data di trascrizione della disposizione che ha poi formato oggetto di riduzione – ovvero se tale termine è stato comunque sospeso dal coniuge o dai discendenti del disponente, attraverso un atto di opposizione stragiudiziale che va prima notificato al beneficiario della disposizione stessa e ai suoi aventi causa e quindi trascritto nei registri immobiliari (rinnovando la formalità entro i successivi vent’anni a pena di inefficacia: art. 563, comma 4, c.c.) – il terzo può far salvo il proprio acquisto solo se ricorrono congiuntamente i seguenti tre requisiti:
(1) l’acquisto è avvenuto a titolo oneroso;
(2) il relativo atto è stato trascritto prima della domanda giudiziale proposta dal legittimario;
(3) la trascrizione della domanda è stata effettuata dopo 10 anni dalla data di apertura della successione (art. 2652 n. 8 c.c.);
(b) se invece il ventennio è decorso (e non vi è stata sospensione), il terzo fa comunque salvo il proprio acquisto e il legittimario potrà avanzare le proprie pretese – per equivalente – solo nei confronti del destinatario diretto della disposizione lesiva.
Per quanto riguarda, invece, i beni mobili registrati, l’art. 2691 n. 5 c.c. detta una regola analoga a quella dell’art. 2652 n. 8 sopra richiamata, ma il termine di trascrizione della domanda giudiziale, decorso il quale gli acquisti anteriori a titolo oneroso sono fatti salvi, è ridotto a tre anni.
Disposizioni peculiari si applicano, infine, nei comuni ove vige il sistema di pubblicità immobiliare tavolare, di matrice austroungarica (che fra l’altro espressamente esclude l’applicabilità degli artt. 534, 563 e 2652 c.c. sopra richiamati: art. 7 R.D. n. 499/1929).
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