Nell’ultimo anno, infatti, in numerose risposte a interpello (cfr. risposte nn. 130, 145, 179, 212, 356, 401 del 2021), l’Agenzia delle entrate ha ricondotto tout court nell’alveo dell’imposta sul valore aggiunto, in modo alquanto rigido e “automatico”, le somme pagate sulla base di accordi transattivi, individuando – di regola – nella rinuncia a far valere i propri diritti in giudizio una prestazione di servizi generica di “fare, non fare o permettere”.
La posizione dell’Agenzia trova fondamento tra l’altro nella sentenza n. 23668/2018, nella quale la Corte di Cassazione ha ritenuto configurabili come operazioni soggette a Iva le rinunce delle parti ai crediti reciproci e il mutuo impegno a estinguere i giudizi pendenti (ravvisando una sorta di permuta di prestazioni).
L’accoglimento acritico dell’interpretazione dell’Agenzia condurrebbe a ritenere che tutti gli accordi transattivi siano rilevanti ai fini Iva per il solo fatto di prevedere sempre (giacché per loro natura non potrebbe essere diversamente) una rinuncia a una lite, attuale o potenziale. Risulta sin troppo evidente il carattere formalistico di tale conclusione, che appare in effetti semplicistica rispetto alla problematica in esame. La rinuncia alla lite costituisce infatti un effetto naturale della transazione; pertanto, la valutazione ai fini dell’applicazione del tributo non dovrebbe arrestarsi alla considerazione di tale effetto, ma necessariamente guardare ai rapporti “sottostanti”.
Sovente peraltro, in sede transattiva, le parti si limitano a rideterminare una pretesa riconducibile alla responsabilità della controparte per l’inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero per il risarcimento di danni anche non contrattuali: in tal caso, la somma avrebbe carattere risarcitorio e sarebbe del tutto fuori dal campo di applicazione dell’Iva, a nulla rilevando il contestuale impegno a rinunciare alla lite.
In ogni caso, un’accorta analisi dovrebbe anzitutto distinguere tra transazione “dichiarativa” e “novativa”. Nella prima non è individuabile un nuovo servizio da assoggettare a Iva, ma si tratta semplicemente di prendere atto, per le operazioni già previste, di un incremento della base imponibile del tributo (qualora siano pattuiti maggiori corrispettivi per prestazioni “originarie” eseguite) ovvero di una sua diminuzione (con emissione di note di credito), sempre che la prestazione originaria sia imponibile (ben potendo essere invece esente, non imponibile o fuori campo). Solo nella seconda tipologia (in cui il titolo o l’oggetto dell’obbligazione originaria vengono ad essere sostituiti) potrebbero invece configurarsi prestazioni di servizi nuove, indipendenti dal rapporto originario, autonomamente imponibili (ad esempio qualora la transazione preveda, verso corrispettivo, l’assunzione dell’obbligo di non esercitare, o di limitare l’esercizio, di un diritto diverso dalla rinuncia al contenzioso).
Non trovi tutte le informazioni che ti servono?
Consulta direttamente i nostri esperti gratuitamente.
Per quanti avessero trattato ai fini Iva transazioni già concluse in base a un diverso approccio interpretativo, il recente orientamento dell’Agenzia pone importanti conseguenze pratiche, primo fra tutte il tema di se e come “rimediare”. In tale ambito le sanzioni amministrative dovrebbero in ogni caso essere ragionevolmente disapplicate, vista l’obiettiva incertezza sulla materia. Pro futuro, come osservato da Assonime nella circolare 26/2021, l’interpretazione fornita dall’Agenzia delle entrate rischia di disincentivare l’utilizzo di questo istituto soprattutto per quei soggetti quali banche, assicurazioni e altre istituzioni finanziarie per i quali l’Iva rappresenta un costo (a causa del ridotto pro-rata di detraibilità) e per i quali cionondimeno tali accordi svolgono un importante ruolo deflattivo del contenzioso.
Considerato che l’orientamento dell’Agenzia muove da un’interpretazione della Corte di Cassazione, sarebbe ragionevole un prossimo ripensamento, che potrebbe in ipotesi fondarsi sulla più recente ordinanza n. 20316/2021, in cui i giudici di legittimità hanno invece negato (seppur nell’ambito del comparto delle imposte dirette) che le somme erogate a fronte di una transazione possano essere ricondotte sempre e comunque ad accordi novativi e all’assunzione di obblighi di fare o non fare. In particolare, la Corte ha espresso il condivisibile principio che occorre guardare alla ragion d’essere ed alla natura dei diritti dedotti in transazione per individuare il regime fiscale appropriato.
Appare chiaro che la “ragion d’essere” di una transazione va ricercata nelle pretese originarie delle parti, definite proprio mediante l’accordo transattivo. Da tali principi si ricava che una transazione riguardante la rideterminazione di corrispettivi originariamente pattuiti ovvero il risarcimento dei danni non può assumere una autonoma (nuova) rilevanza ai fini Iva solo perché le parti rinunciano a reciproche pretese. Come detto, infatti, la transazione non ha ad oggetto una rinuncia “remunerata” (che ne è solo un effetto), ma risolve i rapporti sottostanti (cui va ricondotta la somma transattiva).
Peraltro, ciò è coerente con il fatto che l’assunzione dell’obbligo di rinuncia alla lite non ha di per sé le caratteristiche di una prestazione destinata, in ultima istanza, al “consumo”, che è il presupposto ineliminabile del tributo. Del resto, che l’applicazione dell’Iva esiga la presenza di un servizio “consumabile” dal destinatario (o comunque che sia idoneo a far parte di un circuito produttivo o commerciale preordinato all’immissione in consumo) è un principio affermato dalla stessa Corte di Cassazione (cfr. sentenze nn. 23515/2020 e 1876/2014), sulla base della giurisprudenza della Corte di Giustizia Ue (cfr. Cgue, sentenze 18 dicembre 1995, causa C-384/95 e 29 febbraio 1996, causa C-215/94). Riconoscere sempre alla rinuncia alla lite la natura di una prestazione autonomamente rilevante ai fini Iva significa in sostanza creare artatamente prestazioni che in nessun modo si inquadrano in un ciclo produttivo/commerciale e quindi, in definitiva, a travisare la natura dell’Iva, trasformandola (come paventato da Assonime) da imposta sul consumo appunto addirittura in imposta d’atto che colpisce il contenuto economico dei negozi.
In conclusione, l’incertezza attuale del quadro interpretativo costituisce sicuramente un rischio dal punto di vista fiscale per le imprese che si trovassero a concludere un accordo transattivo oggi; ciononostante, pur avendo a mente il rischio, per le plurime ragioni sopra evidenziate ci sembra possibile arrivare ad una soluzione ragionata e sistematica, da valutarsi in base alle singole circostanze della fattispecie considerata. A ogni modo, in caso di contestazioni resterebbe ferma la possibilità di richiedere la disapplicazione delle sanzioni per obiettiva incertezza sull’interpretazione del dato normativo.