L’antropologia della nostra penisola è una linea di sviluppo, conquista e dialogo di numerosi popoli, di indole e stirpi diverse, che vanno dall’antichità sino all’età moderna. La sua posizione al centro dal Mediterraneo – dalla parola latina mediterraneus, che significa “in mezzo alle terre”, termine assai più rappresentativo della modernità rispetto al greco “ἡ ἡμετέρα θάλασσα” o al latino “mare nostrum” – ha inoltre reso l’Italia un vero e proprio snodo del commercio globale, mettendo in connessione gusti e folklori ben distanti, partendo dalla Scozia al vicino Oriente.
Dal confronto delle diverse civiltà sono nate – prendendo in prestito la terminologia del D.M. 537/2017 ossia i c.d. “indirizzi di carattere generale per la valutazione del rilascio o del rifiuto dell’attestato di libera circolazione da parte degli uffici esportazione delle cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico” – numerose testimonianze di relazioni significative tra diverse aree culturali, rilevanti sotto il profilo archeologico, artistico, storico ed etnografico.
Il risultato è che l’Italia è stata considerata sin dall’antichità uno dei maggiori paesi produttori ed esportatori d’arte al mondo. Ed è (anche) grazie al ruolo di collezionisti, mecenati e mercanti che sono arrivate le enormi risorse finanziarie che hanno permesso a ciascuno dei nostri Comuni di divenire veri e propri musei all’aria aperta. Già a partire dalla fase medievale, infatti, i Comuni identificavano i loro monumenti come un principio d’identità civica, a cui corrispondeva la necessità di tutelare tali simboli quale identificativi della relativa collettività (si pensi alla delibera della città di Roma del 1162 sulla Colonna Traiana, oppure agli Statuti della municipalità di Siena del 1309).
Consapevolezza del patrimonio culturale e introduzione di normative a tutela dei reperti
Con l’avvento dell’età moderna (1492 – 1789), le classi dirigenti dei nostri Stati preunitari hanno dovuto fare i conti con lo spostamento degli equilibri del mondo sugli oceani e, con l’arrivo nell’età contemporanea (1789) e il consolidato relegamento dell’Italia in una posizione secondaria, hanno finalmente sviluppato una maggiore consapevolezza sulla necessità di tutelare il loro patrimonio culturale nella sua interezza. Basti pensare all’editto del Cardinal Pacca del 1820 per la protezione delle opere d’arte e dei monumenti dello Stato Pontificio ovvero al Decreto del 13 maggio 1822 del Regno delle Due Sicilie.
I vari decreti e leggi degli Stati preunitari sono inizialmente sopravvissuti alla formazione del Regno d’Italia, divenendo poi la base per lo sviluppo della legislazione nazionale unitaria in materia di tutela dei beni culturali, rappresentata principalmente dalla L. 364/1909 (c.d. Legge Rosadi), poi evolutasi nella L. 1089/1939 (Legge Bottai), nel “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali” del 1999 e, infine, dell’odierno Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.lgs. 42/2004). Senza ovviamente dimenticarsi il passaggio fondamentale rappresentato dalla nostra Costituzione Repubblicana (Art. 9 “[la Repubblica] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”).
Fra le “innovazioni” introdotte dalla nuova legislazione unitaria del 1909 vi è stata anche l’attribuzione ipso iure della proprietà allo Stato di ogni bene archeologico rinvenuto nel sottosuolo o sui fondali marini (norma tutt’oggi esistente e codicizzata all’art. 91 del D.lgs. 42/2004 (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio).
“Ogni bene archeologico è di proprietà dello Stato”
A partire da quel momento, pertanto, ogni bene archeologico si presume di proprietà dello Stato. Per poter superare tale presunzione e dimostrare di essere il legittimo proprietario, il soggetto privato deve presentare documentazione che attesti in modo univoco e oggettivo (i) l’acquisizione del reperto in mano privata o l’estrazione dello stesso da un sito di ritrovamento prima del 1909 oppure che (ii) il reperto sia stato ceduto direttamente dallo Stato al privato (o ai suoi danti causa) (sul punto, si veda la Circolare della DG ABAP 03.01.2022, n. 1). In mancanza di documentazione, il soggetto può rivolgersi all’autorità giudiziaria al fine di attestare la legittimità del suo possesso sul reperto.
Parallelamente alla stretta tutela garantita ai beni archeologici ritrovati sul territorio nazionale, l’Italia ha altresì ripreso e sviluppato un rigido sistema di autorizzazione all’esportazione degli oggetti d’arte dal territorio nazionale con contestuale verifica del loro potenziale interesse culturale.
Disciplinato dagli artt. 64 bis e ss. del D.lgs. 42/2004, il regime di circolazione italiano è stato soltanto recentemente (2017) oggetto di un intervento di liberalizzazione che ha garantito maggiori libertà, sebbene la strada da percorrere sia ancora lunga prima di giungere al livello degli altri paesi europei.
Maggiori limitazioni, maggiori problemi
Sfortunatamente, dalla luce del mercato c.d. legale e regolamentato si sono altresì sviluppate le ombre del commercio illegale. Il fenomeno è di antiche radici, connesso strutturalmente anche ad una certa mentalità che vedeva il nostro patrimonio culturale come una risorsa a cui attingere per far fronte alle necessità del presente, anziché come un qualcosa da preservare per le generazioni future.
Dai “tombaroli” dell’Etruria o del complesso archeologico di Pompei ed Ercolano, sono migliaia i reperti scavati illegalmente che – dopo il 1909 – hanno preso la strada dei grandi mercati internazionali. Invero, la domanda dei collezionisti è talmente forte che ha coinvolto anche la ricettazione di opere d’arte rubate ai loro legittimi proprietari.
Per fortuna, la cooperazione internazionale non è rimasta a guardare ma ha anzi sviluppato degli efficaci strumenti di controllo e di repressione dei fenomeni criminosi e/o distorsivi del mercato. A tal scopo, in Italia, non può non citarsi la professionalità del nucleo Tutela Patrimonio Culturale, corpo d’eccellenza dell’Arma dei Carabinieri, ma anche dell’utilissimo strumento della Banca Dati dei beni culturali illecitamente sottratti, curata sempre dai Carabinieri. Sebbene la presenza o meno di un bene sulla suddetta Banca Dati non rappresenta, di per sé, conferma della presenza legittima di un bene all’interno di un mercato, il controllo rappresenta la base di qualsiasi due diligence che un acquirente diligente dovrebbe attuare.
Arte trafugata e salvata: i 600 reperti archeologici e opere d’arte restituiti all’Italia
A dimostrazione dell’efficacia raggiunta dal sistema di controllo, si evidenzia che lo scorso 28 maggio 2024, l’Italia è riuscita ad ottenere la restituzione di circa 600 oggetti – fra reperti archeologici ed opere d’arte – per un valore complessivo di circa 60 milioni di euro, che ora torneranno ai legittimi proprietari o verranno sequestrati e diverranno proprietà del nostro Stato (e quindi, della collettività). L’eccellente risultato è stato il frutto della collaborazione fra il nucleo TPC dei Carabinieri e gli uffici del Manhattan District Attorney e il dipartimento dell’U.S. Homeland Security Investigations.
I reperti rimpatriati coprono un periodo storico vasto, dall’antico – come una moneta raffigurante l’imperatore Traiano, rubata nel 1978 dal Museo Archeologico Oliveriano di Pesaro e recuperata da una casa d’aste di Philadelphia, oppure una corazza e due teste di bronzo che erano in possesso di un noto gallerista di New York – al contemporaneo. Uno degli oggetti più preziosi del lotto era una moneta d’argento di Nasso del IV secolo raffigurante il dio greco del vino, Dionisio, recuperata da un sito in Sicilia intorno al 2013 ed esportata illecitamente nel Regno Unito.
Insomma, il crimine non paga mai, nemmeno nella cultura.
In copertina: foto di Emanuele Antonio Minerva © Ministero della Cultura