In Italia ci sono tre diverse forme di previdenza complementare: fondi negoziali, fondi aperti e piani individuali pensionistici
Nel corso del 2021 le posizioni in essere presso le forme pensionistiche complementari sono aumentate di 403.000 unità rispetto alla fine del 2020
Le tre forme diverse di previdenza complementare sono molto simili a livello di gestione e obiettivi. Esistono però differenze di costo e di performance
Quando si parla di pensioni, e dunque di futuro, è radicata l’idea che la previdenza pubblica non permetta più di dormire sonni sereni. Tant’è che nell’ultimo biennio sempre più italiani hanno aderito a forme di previdenza complementare. Lo testimoniano i numeri della Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensioni. Stando all’ultimo report della Covip, infatti nel corso del 2021 le posizioni in essere presso le forme pensionistiche complementari rispetto alla fine del 2020 sono aumentate di 403mila unità (4,3%) a 9,745 milioni. Tale numero di posizioni, che include anche quelle di coloro che aderiscono contemporaneamente a più forme, corrisponde un totale degli iscritti pari a circa 8,8 milioni di individui.
I dati non sorprendono gli addetti ai lavori. “ll trend di crescita della previdenza complementare è proseguito, nonostante il momento di grande tensione. La pandemia, la guerra e l’inflazione sono tutti elementi che incidono ma che non hanno creato sin qui troppi stravolgimenti sul risparmio previdenziale e sui suoi rendimenti”, spiega Alessandro Bugli, centro studi e ricerche di Itinerari previdenziali e partner dello studio Thmr, che tuttavia sottolinea come diverse persone abbiano dovuto o voluto sospendere i versamenti. “È prevedibile stante l’inflazione, che qualcuno in questo momento di grande incertezza abbia ritenuto di tenere più liquido il proprio risparmio”, continua Bugli. Ad ogni modo la crescita di iscritti ha interessato tutte e tre le forme di previdenza complementare. Nel corso dell’anno, i fondi negoziali hanno registrato un incremento di 196mila posizioni (+6 %), per un totale a fine anno di 3,457 milioni.
Come si legge dal report, oltre quattro quinti della crescita si è avuta nei fondi per i quali sono attive le adesioni contrattuali, che per i nuovi assunti di diversi settori hanno luogo automaticamente sulla base dei contratti nazionali di riferimento. Per quanto riguarda le forme pensionistiche di mercato invece i fondi aperti hanno registrato 108mila nuove posizioni (+6,6 %), mentre i Piani individuali pensionistici (Pip) 103mila (+2,9 %). Alla fine del 2021, il totale delle posizioni in essere in tali forme era pari, rispettivamente, a 1,735 milioni e 3,613 milioni di unità. Di pari passo anche le risorse gestite da questi fondi sono aumentate notevolmente. Nel corso dell’anno le masse sono aumentate di 14,7 miliardi raggiungendo quota 212,6 miliardi di euro. Nei fondi negozia- li, l’attivo netto a fine 2021 era di 65,3 miliardi di euro, l’8,2% in più. Nelle forme di mercato, esso ammontava a 29 miliardi nei fondi aperti e a 44,1 miliardi nei Pip “nuovi” aumentando, rispettivamente, del 14,2% e del 13%. Mentre crescevano le iscrizioni e i risparmi in gestione, i fondi operanti nella previdenza complementare diminuivano. È un trend che va avanti da diversi anni. Si è passati dai 739 fondi del 1999 ai 559 del 2010, fino ad arrivare ai 372 del 2020: di questi 33 sono nego- ziali, 42 aperti, 71 Pip cosiddetti “nuovi” e 226 fondi pensione preesistenti alla riforma del 1993.
Quali sono le differenze tra questi fondi? “I fondi negoziali sono gli enti (associazioni, per lo più) che nascono dalla contrattazione collettiva e gestiscono il risparmio di una categoria di lavoratori o di un determinato territorio, tramite operatori specializzati. I fondi aperti e Pip sono invece forme pensionistiche complementari che si rivolgono all’intero mercato del risparmio: chiunque può sottoscriverli. I primi (gli aperti) sono fondi proposti da istituzioni finanziarie (banche, sim, sgr e compagnie di assicurazione) i secondi (i Pip) sono contratti di assicurazione sulla vita proposti da compagnie assicurative”, spiega Bugli che sottolinea come ad ogni modo si tratta di forme che hanno largo circa le stesse regole di contribuzione, di gestione e di erogazione delle prestazioni, secondo il d.lgs. 252/2005.
Sotto il profilo costo-rendimento esistono tuttavia delle differenze. I fondi più costosi risultano essere i Pip, quale sia la strategia perseguita. L’indicatore sintetico dei costi (Isc) medio per questi fondi su 10 anni è di 1,88% (garantito), 1,94% (obbligazionario), 2,13% (bilanciato) e 2,72% (azionario). Seguono i fondi aperti con valori di 1,21%, 1,09%, 1,45%, 1,71%. I fondi più convenienti sono infine i negoziali il cui Isc medio per comparto è di 0,59%, 0,39%, 0,37%, 0,4%. Venendo alle performance, nel 2021 i risultati delle forme complementari sono stati in media positivi, e più elevati per le linee di investimento caratterizzate da una maggiore esposizione azionaria. Al netto dei costi di gestione e della fiscalità, i rendimenti si sono attestati, rispettivamente, al 4,9 e al 6,4% per fondi negoziali e fondi aperti; nei PIP di ramo III essi sono stati pari all’11,1%. Per le gestioni separate di ramo I, che contabilizzano le attività a costo storico e non a valori di mercato e i cui rendimenti dipendono in larga parte dalle cedole incassate sui titoli detenuti, il risultato è stato pari all’1,3 %. Valutando i rendimenti su orizzonti più propri del risparmio previdenziale, nei dieci anni da inizio 2012 a fine 2021, il rendimento medio annuo composto è stato pari al 4,1% per i fondi negoziali, al 4,6% per i fondi aperti, al 5% per i Pip di ramo III e al 2,2% per le gestioni di ramo I.
Infine, per quanto riguarda la composizione degli investimenti di questi strumenti, dal rapporto annuale 2020 è emerso come il patrimonio dei fondi pensione sia investito principalmente in titoli di debito (56,1%), soprattutto titoli di Stato; il 19,6% in azioni e il 15,5% in fondi comuni. Gli investi- menti domestici rappresentavano il 23,8% del patrimonio totale. Gli investimenti in titoli emessi da società italiane sono limitati al 2,9% del patrimonio totale.
(articolo tratto dal magazine We Wealth di giugno)