Portabilità e riscatto integrano un principio generale del sistema previdenziale complementare e rappresentano un “diritto” applicabile a tutti i fondi complementari
È il lavoratore il soggetto legittimato a domandare l’ammissione per le quote di TFR maturate e non versate dal datore di lavoro fallito
Con una recente pronuncia, la n. 16279 del 2023, la Corte di Cassazione si esprime in materia di Trattamento di fine rapporto e forme pensionistiche complementari.
La disciplina
La disciplina delle forme pensionistiche complementari, collocate nell’alveo dell’art. 38 Cost., al pari della previdenza obbligatoria trova il suo attuale referente normativo nel d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria) che ha operato una riforma organica del settore, nella prospettiva di una complessiva armonizzazione e razionalizzazione, informandolo al principio di autonomia (ancorché “funzionalizzata”).
Come chiarito dalla Cassazione, in particolare, la disciplina di cui al d.lgs. 252/05 prevede che l’adesione alle forme pensionistiche complementari è libera e volontaria; inoltre, le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari, nella loro modulazione negoziale collettiva e regolamentare, stabiliscono le modalità di partecipazione, garantendo la libertà di adesione individuale.
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Tfr e forme pensionistiche complementari
I giudici di legittimità osservano che il finanziamento delle forme pensionistiche complementari è attuabile mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro e del committente, o anche attraverso il conferimento del TFR maturando, che comporta l’adesione alle forme pensionistiche complementari, in modalità espressa o tacita.
L’adesione al fondo secondo queste modalità prevede tuttavia la cd. portabilità dell’intera posizione individuale, vale a dire la facoltà del suo trasferimento ad un’altra forma di previdenza complementare.
Più in particolare, “portabilità” e “riscatto” integrano un principio generale del sistema previdenziale complementare e rappresentano un “diritto” applicabile «a tutti i fondi complementari indipendentemente dalle loro caratteristiche strutturali, ivi compresi quelli funzionanti secondo il sistema cd. a ripartizione o a capitalizzazione collettiva e a prestazione definita, essendo comunque ravvisabile una posizione individuale di valore determinabile, la cui consistenza va parametrata ai contributi versati al Fondo, compresi quelli datoriali, ed ai rendimenti provenienti dal loro impiego produttivo.
Diritto di portabilità e riscatto
Il riconoscimento del diritto alla portabilità e al riscatto risponde all’obiettivo di favorire la reale liberalizzazione dei diversi veicoli pensionistici complementari e l’affermazione piena di una reale consapevolezza del risparmiatore nella scelta dello strumento ritenuto più idoneo alla realizzazione della copertura previdenziale, in una cornice normativa volta ad ampliare le libertà di scelta dei lavoratori iscritti alle forme pensionistiche complementari, coerentemente con l’estensione dei margini di libera circolazione nel sistema della previdenza complementare e in una logica di sviluppo, in senso compiutamente europeo, della disciplina nazionale.
Il caso di specie
Cosa accade se il Tfr maturando sia stato conferito in una forma pensionistica complementare ma il datore di lavoro, insolvente, abbia omesso di versare il Tfr al fondo? Chi è il soggetto legittimato ad insinuare lo stato passivo per la corrispondente pretesa creditoria?
La questione a cui ha provato a rispondere la Corte ruota sulla legittimazione attiva ai fini dell’insinuazione al passivo del fallimento del datore di lavoro, per le quote del TFR conferito dal dipendente a un Fondo di previdenza complementare: essa spetta al dipendente, ovvero al Fondo di previdenza complementare?
Parte della giurisprudenza ha osservato che il TFR costituisce a tutti gli effetti un credito del lavoratore, la cui esigibilità è subordinata alla cessazione del rapporto e, di conseguenza, le quote accantonate del TFR, tanto che siano trattenute presso l’azienda, quanto che siano versate al Fondo di Tesoreria dello Stato presso l’I.N.P.S. ovvero conferite in un Fondo di previdenza complementare, sono intrinsecamente dotate di potenzialità satisfattiva futura e corrispondono ad un diritto certo e liquido del lavoratore, di cui la cessazione del rapporto di lavoro determina l’esigibilità.
Sarebbe perciò il lavoratore il soggetto legittimato a domandare l’ammissione per le quote di TFR maturate e non versate dal datore di lavoro fallito al Fondo Tesoreria dello Stato gestito dall’INPS.
Il lavoratore ha diritto di vedere soddisfatte le proprie pretese in sede concorsuale e, in caso di insoddisfazione totale o parziale nell’ambito della procedura di riferimento, può chiedere l’intervento del Fondo di garanzia per integrare presso il Fondo complementare i contributi non versati dal datore di lavoro, e in quel caso il Fondo di garanzia è surrogato di diritto al lavoratore per l’equivalente dei contributi omessi.
Si tratta dunque di un diritto che compete in prima battuta al lavoratore nei confronti del datore di lavoro, tanto che, in caso di fallimento di quest’ultimo, è mera facoltà del lavoratore richiedere l’intervento del Fondo di garanzia, il quale poi si surroga al lavoratore nell’ammissione al passivo fallimentare.
Si può concludere, quindi, che in caso di fallimento del datore di lavoro, la legittimazione ad insinuarsi al passivo per le quote di TFR maturate e accantonate ma non versate al Fondo di previdenza complementare spetta, di regola, al lavoratore.