A sostegno del proprio assunto la ricorrente deduce la malafede dell’artista, che avrebbe depositato il marchio senza una reale intenzione di utilizzarlo per contraddistinguere i prodotti rivendicati (in funzione, cioè, “distintiva”, come prescrive la normativa europea).
Il vero scopo della registrazione, da parte dell’artista, sarebbe stato invece quello di garantire una qualche tutela ai propri lavori, non potendo Banksy fare affidamento su quella offerta dal diritto d’autore, che avrebbe richiesto di rivelare la propria identità: come noto, chi si celi dietro il nome d’arte “Banksy” non è dato sapere (e questo alone di mistero, per lo meno nei primi tempi, ha contribuito ad accrescere la fortuna, anche commerciale, dell’artista).
Banksy, Flower Thrower, 2005, Gerusalemme. Secondo l’Euipo Banksy non ha alcun diritto commerciale su questa immagine
Osserva, ancora, la ricorrente che la domanda di marchio sarebbe stata presentata per monopolizzare l’opera in questione per un tempo indefinito, in aperto spregio dei principi che governano il diritto d’autore, che, contrariamente al marchio (rinnovabile in perpetuo), concedono diritti di sfruttamento economico limitati nel tempo: settant’anni successivi alla morte dell’autore. Ancorchè suggestiva, a nostro avviso la tesi non è fondata, in quanto è fatto notorio che vi sono diverse opere d’arte (in quanto tali, oggetto di copyright) depositate anche come marchio, con buona pace della normativa di settore.
Il nodo da sciogliere, pertanto, risiede altrove: la registrazione del marchio “Flower Thrower” è stata richiesta per “aggirare” la disciplina di legge sul diritto d’autore? Bansky (e, per esso, Pest Control Office Limited) ha dunque agito in malafede?
È stata proprio la malafede il grimaldello giuridico che ha consentito all’Euipo di scardinare la tenuta del marchio. Le argomentazioni degli advisor di Banksy non sono state ritenute convincenti; al contrario, l’Ufficio ha evidenziato numerose circostanze indici della malafede dell’artista. A dire il vero, un assist in tal senso è stato fornito dallo stesso Banksy, il quale aveva pubblicamente rivelato di aver escogitato lo stratagemma dell’apertura del “temporary shop” al preciso scopo di evitare la decadenza del marchio per mancato uso: agli atti, infatti, figurava un articolo di giornale sul quale, piuttosto ingenuamente, Bansky affermava: “Sometimes you go to work and it’s hard to know what to paint, but for the past few months I’ve been making stuff for the sole purpose of fulfilling trademark categories under EU law”.
Giustizia è fatta? Per quanto rilevato in precedenza – e, in particolare, per come l’artista ha “gestito” l’utilizzo del lanciatore di fiori – l’epilogo pare più frutto di un autogol che altro. E tuttavia la decisione, sul piano strettamente giuridico, è ineccepibile (prova ne è il fatto che lo stesso Banksy ha rinunciato ad impugnarla nel termine assegnatogli).
Per lo street artist di Bristol la pronuncia costituisce un precedente indubbiamente scomodo: nell’impossibilità di tutelare le sue opere a mezzo del diritto d’autore (perché ciò lo obbligherebbe ad uscire allo scoperto, rivelando la propria identità e tradendo il suo mantra: “copyright is for losers”), per il futuro resta, per Bansky, la difficoltà di reagire nei confronti dello sfruttamento delle proprie opere a fini commerciali invocando la tutela accordata per i marchi, in quanto – pronuncia in commento a parte – l’artista ha sempre dichiarato: “Banksy has never produced greetings cards, mugs or photo canvases of his work”.
Una retromarcia s’impone. Per la prima volta, Banksy è all’angolo: saprà uscirne?