Prima di illustrare in generale le misure che gli esperti propongono di adottare non può prescindersi dal descrivere sia pur in generale gli aspetti fiscali del reshoring. In proposito va notato che l’ordinamento tributario italiano vigente già disciplina il trasferimento in Italia, anche in esito a operazioni straordinarie, della residenza delle imprese estere nonché di attivi e complessi aziendali, con riferimento alla valorizzazione a fini fiscali delle attività e passività che fanno ingresso nel Paese (al riguardo si parla contro-intuitivamente di “entry tax”, anche se tecnicamente non è dovuta alcuna imposta per il riconoscimento di tali valori).
Attualmente il criterio di valorizzazione degli asset “(ri)nazionalizzati” (incluso l’avviamento) è il “valore di mercato”, determinato in base ai corrispettivi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili, tenendo conto delle linee guida del Mef relative alla disciplina dei prezzi di trasferimento infragruppo e degli standard internazionali dell’Ocse. In definitiva, secondo l’attuale formulazione delle norme, l’ingresso in Italia determina una rivalutazione (step-up) dei valori fiscalmente riconosciuti di tutti gli asset della società entrante. Nell’ipotesi in cui il trasferimento avvenga da uno Stato con cui non è attuato un adeguato scambio di informazioni con l’Italia, la rivalutazione è invece subordinata alla conclusione di un accordo preventivo con l’Amministrazione finanziaria, in assenza del quale il valore fiscale è assunto in misura pari al minore tra il costo di acquisto, il valore di bilancio e il valore di mercato (mentre per le passività rileva il maggiore dei tre).
Rispetto al regime attuale, il piano Colao propone una maggiorazione percentuale – anche del 50% – del valore di mercato delle attività oggetto di rimpatrio consentendo così alle imprese di godere, mediante l’ammortamento fiscale, di uno step-up ancora più vantaggioso. Alternativamente, si ipotizza l’introduzione di un credito d’imposta parametrato al valore di mercato dei beni rimpatriati, nonché agli investimenti realizzati in relazione al rimpatrio (per la riqualificazione/riconversione di aree industriali). Un’altra opzione è quella di prevedere un’esenzione dall’Ires, o quantomeno una riduzione di aliquota, per le società trasferite come avviene già in certi Paesi.
Il piano propone anche la “decontribuzione” temporanea (per 5/10 anni) dei lavoratori neo-assunti dalle imprese “rimpatriate”, considerato che l’elevato costo del lavoro è uno dei fattori scatenanti della delocalizzazione, nonché la possibilità di valutare l’estensione degli incentivi a tutti i nuovi insediamenti produttivi in Italia.
Non espressamente citate nel piano Colao, ulteriori possibili misure incentivanti potrebbero essere l’estensione dell’agevolazione Ace (“Aiuto alla crescita economica”) ai capitali conferiti per sostenere i costi del reinsediamento in Italia e il potenziamento del patent box, facilitato nella procedura (anche di calcolo) e nei tempi.
Le misure proposte sono rivolte unicamente alle imprese; sarebbe invece opportuno prevedere incentivi specifici anche per i lavoratori che contribuiscono ad accrescerne il valore. Si potrebbero, ad esempio, estendere i benefici fiscali già previsti per il cosiddetto “rientro dei cervelli” – detassazione del 70% del reddito imponibile percepito – anche nelle ipotesi di reshoring per favorire il trasferimento in Italia di competenze altamente specializzate.
Sarebbe inoltre opportuno che il legislatore cogliesse l’occasione per ridurre uno dei deterrenti a investire nel (e sul) Paese, vale a dire il deficit di chiarezza di molti istituti fiscali, essendo la trasparenza normativa in generale uno strumento di competitività internazionale che potrebbe dare ulteriore impulso anche al reinsediamento in Italia delle attività produttive.
La messa a punto del regime di reshoring potrebbe quindi rappresentare l’occasione per chiarire alcuni aspetti tecnici dell’attuale regime di entry tax ancora dubbi, la cui persistenza potrebbe di per sé ridurre l’appeal per le imprese di un rimpatrio delle proprie attività in Italia.
Al riguardo si noti come lo step-up sia applicabile alle società che, trasferendosi nello Stato, divengono residenti ai fini Ires. Ebbene, l’acquisizione della residenza fiscale richiede che la società abbia nel territorio dello Stato la sede legale, la sede dell’amministrazione ovvero l’oggetto principale per la maggior parte del periodo d’imposta. È evidente che, se il trasferimento di sede avviene nella seconda parte del periodo d’imposta, si genera un disallineamento temporale (tuttora irrisolto dalle norme) problematico al fine di individuare il momento in cui devono essere valutati i beni trasferiti. Il dubbio potrebbe essere risolto con l’introduzione di un meccanismo di frazionamento del periodo d’imposta conseguente al trasferimento di sede (cosiddetto split year), a oggi previsto soltanto in alcune Convenzioni bilaterali concluse dall’Italia (come quelle con Svizzera e Germania). In mancanza di un’espressa e generalizzata previsione dello split year, gli eventuali problemi di doppia residenza in caso di trasferimento in corso d’anno potranno essere risolti solo su base bilaterale, applicando le pertinenti disposizioni delle convenzioni contro le doppie imposizioni.
Una riflessione meriterebbe poi il trattamento delle eventuali partecipazioni trasferite, relativamente all’applicazione della participation exemption (“Pex”); in particolare è dubbia la rilevanza del possesso pregresso delle partecipazioni (quando l’impresa aveva la sede all’estero) ai fini dell’holding period minimo di 12 mesi e della classificazione dei titoli tra le immobilizzazioni finanziarie. In un risalente documento di prassi, concernente il trasferimento di sede in Italia di una società lussemburghese, l’Amministrazione finanziaria aveva ritenuto determinante, al fine di riconoscere alle partecipazioni l’holding period pregresso la continuità giuridica dell’ente trasferito. Con riguardo, invece, all’ulteriore requisito della classificazione in bilancio, l’Agenzia aveva puntualizzato che tale condizione doveva ritenersi soddisfatta solo nel caso in cui le partecipazioni fossero iscritte tra le immobilizzazioni finanziarie in un bilancio redatto in conformità alla legislazione italiana o europea. È dubbio se tali conclusioni siano valide anche nel nuovo contesto normativo; tuttavia, in un’ottica di incentivazione, potrebbe essere ragionevole (e più semplice) riconoscere alle partecipazioni le caratteristiche che possedevano prima del loro ingresso in Italia ai fini dell’applicazione della Pex.
Altri temi (dubbi) di rilievo sono l’utilizzabilità delle eventuali perdite fiscali generate nel Paese estero prima del trasferimento in Italia e la rilevanza dello step-up anche ai fini dell’Irap. Su quest’ultimo punto, l’Amministrazione finanziaria ha recentemente affermato che, non essendo più applicabile la derivazione della base imponibile Irap da quella Ires, i valori di ingresso debbano necessariamente coincidere con i valori contabili degli elementi patrimoniali della società e non con il valore normale (cioè a dire che lo step-up non ha rilevanza Irap). Tale conclusione desta tuttavia non poche perplessità di coordinamento con l’impianto normativo vigente in tema di entry tax ai fini Ires e in generale di coerenza con il sistema.
Fermi questi punti, che probabilmente rimarranno irrisolti fino a un intervento ad hoc da parte del legislatore, appare utile già da adesso promuovere una semplificazione della procedura di trasferimento della residenza fiscale in Italia, mediante accordi con il Fisco semplificati e celeri, in modo da garantire alle imprese immediata certezza dei valori fiscali di ingresso. In particolare, si potrebbe estendere al reshoring l’ambito di applicazione dell’interpello sui nuovi investimenti, introdotto nel 2015 proprio con la finalità di attrarre in Italia capitali e risorse finanziarie.
Oggi l’istanza di interpello può essere presentata per investimenti nello Stato di valore non inferiore a trenta milioni di euro, con ricadute occupazionali significative e durature. La proposta della task force è di prescindere da qualsivoglia soglia quantitativa e considerare come “nuovo investimento” l’attività oggetto del rimpatrio, anche se non riguarda un piano di investimento strutturale.
Tema non marginale all’attenzione, infine, è la compatibilità degli incentivi proposti con la normativa europea in tema di aiuti di Stato. L’ordinamento comunitario pone infatti in capo agli Stati Membri il divieto di introdurre agevolazioni che possano indebitamente falsare o minacciare la concorrenza all’interno del mercato unico. Tuttavia, è evidente come si giungerebbe ad un esito paradossale se le misure introdotte per rimediare alla delocalizzazione di attività, principalmente verso Stati a fiscalità privilegiata, subissero poi il veto da parte delle istituzioni europee.