[1] I più antichi reperti umani sono infatti stati ritrovati nell’Africa subsahariana.
È il 1989 l’anno che segna ufficialmente l’ingresso della scena artistica africana contemporanea nel sistema dell’arte globale; e tutto succede a Parigi al Centro Georges Pompidou e alla Grande halle de la Villette in occasione dell’esposizione Magiciens de la Terre curata da Jean-Hubert Martin che per la prima volta riunisce oltre cento artisti, famosi e non, provenienti dai cinque continenti, con l’ambizione di raccontare e far dialogare le discipline artistiche di due universi culturali lontani, occidentale e non-occidentale, e posizionare finalmente su un piano di parità gli artisti di tutto il mondo. Il risultato è una mostra innovativa e d’avanguardia, oggi considerata il punto di riferimento per la storia dell’arte contemporanea africana.
olio su tela, 97 x 86 cm
Courtesy: Bonhams
Entrambi gli accadimenti – la mostra parigina e la collezione Pigozzi – hanno contribuito in modo significativo all’accelerazione del riconoscimento internazionale dell’arte africana e dei suoi esponenti, fino ad allora non considerati nelle dinamiche del mercato occidentale.
Riconoscimento che, a distanza di trent’anni da quella fatidica data, arriva anche dall’Italia con la Biennale di Venezia, appuntamento che da sempre funge da catalizzatore influenzando il comportamento degli acquirenti garantendo la visibilità internazionale degli artisti e che l’anno scorso ha riservato ampio spazio alla pittura black contemporanea con rappresentazioni da sette dei cinquantaquattro paesi del continente. In particolare, il Ghana, alla sua prima partecipazione, presenta sei artisti – di cui tre grandi nomi (El Anatsui, Ibrahim Mahama e Lynette Yiadom-Boakye) – che raccontano la semplicità della vita africana e la tradizione dell’uso di materiali di recupero diventando metafora di temi ‘alti’ e attuali, il tutto all’interno di un padiglione che ricorda le forme, curvilinee, e i colori, della terra, tradizionali delle strutture architettoniche del paese.
olio su tela, 97 x 66,5 cm
Courtesy: Bonhams
L’inarrestabile ascesa dell’arte africana
Per comprendere la straordinaria crescita di interesse da parte del collezionismo internazionale per l’arte contemporanea africana, basti osservare il grafico dell’andamento delle aste di settore negli ultimi dieci anni (2009-2019) per fatturato redatto da Deloitte e ArtTactic in Art&Finance Report, che dimostra come il mercato sia sempre più esperto e pronto ad abbracciare questa forma d’arte.
Il 2019 è stato un anno da record per le vendite all’incanto di African Art che da sola ha generato quasi £14 milioni (+41% sul 2018, già ottimo). Aumento esponenziale dei fatturati, certo, ma anche dei prezzi delle singole opere che nel giro di qualche anno, da poche migliaia di sterline sono arrivati a superare il milione. Al tempo stesso, anche i tassi di invenduto negli ultimi due anni si sono ridotti sensibilmente passando da 60–70% al 25–45%.
È Londra il cuore di questo segmento di mercato (75%) con Sotheby’s e Bonhams a contendersi la piazza, seguita da Parigi (17%) con Artcurial e la giovanissima casa d’asta Piasa che dal 2016 propone vendite specializzate di arte africana e, infine, terzo player da tenere in considerazione è naturalmente New York (8%), trampolino di lancio per la conquista di nuovi collezionisti internazionali, sebbene sia ancora maggiormente concentrata sulla promozione degli artisti afro-americani.
Risale al 24 giugno 1999 la prima grande asta organizzata da Sotheby’s Londra di una selezione di opere africane della famosa collezione Pigozzi, caratterizzata da prezzi contenuti, non più di £14.000, e l’88% del venduto. Vent’anni dopo circa, grazie anche all’apertura nel 2016 di un dipartimento dedicato, il fatturato della maison nelle vendite di arte africana è aumentato di ben dieci volte. Dall’asta inaugurale del 16 maggio 2017 (£2.8 milioni e 79% di venduto), Sotheby’s ha fatto passi da gigante, battendo altre cinque aste a tema che hanno registrato oltre sessanta nuovi record, come nel caso dell’opera Une vie non ratée di Chéri Samba, co-fondatore della Scuola Popolare del Congo e oggi tra gli artisti più desiderati e ricercati dai collezionisti, che da un prezzo di £8.000 nel 1999 è stata rivenduta vent’anni dopo per £42.000 (+425%). A ottobre 2019 la major con una sola asta di African Art ha raccolto oltre £4 milioni registrando il risultato più alto mai realizzato per una vendita di questo tipo, con opere di artisti da oltre ventuno paesi africani.
Se poi si combinano i risultati delle aste di Londra e Parigi – che da sole pesano per il 92% del mercato africano globale –, il fatturato generato da queste specifiche opere è quasi quadruplicato negli ultimi cinque anni, passando da £6 milioni (2014–2016) a £22.1 milioni (2017–2019). Non a caso gli specialisti del mercato parlano di una vera “esplosione di interesse per l’arte moderna e contemporanea africana.“
tappi di bottiglia di alluminio e fio di rame riciclati, 186,7 x 251,5 x 10.,2 cm.
Courtesy: Christie’s
olio su tela, 207 x 196,2 cm
Courtesy: Phillips
Ma chi sono i protagonisti del mercato che sono stati in grado in un tempo straordinariamente breve di catturare i cuori e le menti del collezionismo mondiale?
Star indiscussa è la sudafricana Irma Stern (1894 – 1966) che, con un fatturato totale di £5 milioni[1] generato da 64 lotti nel 2019, è al 232° posto nella classifica degli artisti più quotati nel mercato delle aste internazionali. Sebbene il 2011 sia stato il suo anno d’oro, registrando un turnover di £12.5 (47 lotti) e il suo, ancora imbattuto, top price record con Arab Priest (1945) passato di mano per £2.7 milioni da Bonhams nella vendita londinese Masterpieces – The South African Sale (23 marzo), l’andamento di mercato dell’artista, amante dei ritratti e delle figure esotiche oltre che del colore, appare in costante crescita. Nata a Schweizer-Reneke, Stern studia arte in Germania, tra Weimar e Berlino, durante la prima guerra mondiale. È nella capitale che ha luogo la sua prima personale (1919) alla quale seguirono altre quasi cento mostre in Europa (Germania, Francia, Italia e Inghilterra) e, seppur con qualche difficoltà iniziale, anche nel suo paese natale. La critica sudafricana considerava infatti la sua arte immorale destinandole nei primi anni ‘20 recensioni negative come “Art of Miss Irma Stern – La bruttezza come un culto.” Oggi non esiste catalogo di African Art senza almeno un’opera di Stern, nella quale si riconosce una forte influenza dell’espressionismo astratto tedesco, ed è considerata una delle maggiori artiste sudafricane alla quale è dedicata una casa-museo (Irma Stern Museum) istituita nel 1971, gestita dall’Università di Città del Capo e dall’Irma Stern Trust.
Al secondo posto del podio degli artisti più venerati dal mercato troviamo Ben Enwonwu (1917 – 1994), scultore e pittore nigeriano oltre a illustre scrittore e critico d’arte, nasce a Onitsha da madre commerciante tessile e padre scultore dal quale apprende le sue prime abilità di intaglio. Enwonwu respira arte fin dalla sua infanzia e, infatti, all’età di 17 anni, si iscrive al Government College di Ibadan, dove studia arte sotto la supervisione del tutor Kenneth C. Murray. Due anni dopo, grazie a una borsa di studio, prosegue gli studi alla Slade School of Fine Art dell’Università di Londra e completa il lavoro post-laurea in antropologia sociale presso la London School of Economics.
Le sue opere più belle e famose risalgono proprio a questi anni, tra cui tre ritratti – tutti intitolati Tutu – di una giovane donna Yoruba di nome Adetutu Ademiluyi, nipote di un precedente Re di Ife, che l’artista incontrò in uno dei suoi viaggi nelle campagne circostanti l’istituto. La rappresentazione del viso di tre quarti, il collo allungato, la pelle luminosa, le labbra curve e il sorriso delicato contro le pieghe del tessuto drappeggiato sulla spalla sinistra, ci ricordano una Monna Lisa africana e testimoniano il calore e la grazia della protagonista, resa ancor più evidente da una miscela di pennellate chiaramente definite e sciolte e dalla postura autoriale e regale. Il lavoro di Enwonwu ha indubbiamente influenzato molti artisti africani contemporanei e il suo sogno di un mondo in cui si celebra l’arte africana è ancora vivo e, con la recente ondata di interesse internazionale, è più vicino che mai.
Medaglia di bronzo, infine, per El Anatsui (Ghana, 1944), uno dei pionieri della scultura del continente e il secondo artista africano ad aver vinto un Leone d’oro alla Biennale di Venezia (2015), dopo Malick Sidibé (2002). Conosciuto per i suoi lavori monumentali, enormi arazzi metallici scintillanti, pesanti e malleabili, realizzati con migliaia di frammenti di materiale di scarto (tappi di bottiglie legati insieme da fili di rame) dalle dimensioni tali da poter rivestire intere facciate di edifici, Anatsui nel 2019 è al 530° gradino della classifica internazionale degli artisti più quotati, con 11 lotti venduti e un fatturato totale di £1.8 milioni. Il suo record d’asta risale al 2018 durante la vendita newyorkese Post-War & Contemporary Art di Christie’s, dove l’installazione Recycled Dreams (Uniting the World with a Stitch) del 2005 ha più che raddoppiato la stima minima, raggiungendo quota $1.512.000. Risultato eccezionale ottenuto anche grazie all’unicità dell’opera, capace di fondere abilmente insieme l’artificialità dei materiali con lo splendore del mondo naturale africano, creando una dicotomia tra forma e contenuto, caratteristiche tipiche delle sue sculture di maggior successo.
Recycled Dreams è un’opera che ci parla dell’Africa occidentale, del suo ruolo nel mondo che sta cambiando, di un passato orgoglioso ma difficile, e di un futuro promettente. Apprezzato soprattutto da collezionisti inglesi e americani, l’artista ghanese tesse, ricama e ricompone grandi opere con un lavoro manuale di grande precisione, ricordandoci gli arazzi medievali, la moderna pittura europea e, naturalmente, l’arte e l’artigianato locale ed evocando in noi la topografia e le formazioni geografiche della sua terra. Il lavoro di Anatsui interroga la storia del colonialismo, gli abusi e i maltrattamenti, e traccia connessioni tra consumo, rifiuti, ambiente ed economia locale, anche se al centro rimane sempre il suo linguaggio formale unico visivo e intrinsecamente egualitario dal quale emerge un forte senso di collettività globale.
Nel novero degli artisti africani che bisogna assolutamente conoscere troviamo i sudafricani Marlene Dumas (Città del Capo, 1953) e Gérard Sekoto (Botshabelo, 1913 – Parigi, 1993), la nigeriana Njideka Akunyili Crosby (Enugu, 1983), l’etiope Julie Mehretu (Addis Abeba, 1970), il congolese Chéri Cherin (Kinshasa, 1955) e i ghanesi Ibrahim Mahama (Tamale, 1987) e Amoako Boafo (Accra, 1984). Quest’ultimo, in particolare, ha ottenuto un eccellente risultato nell’ultima asta di Phillips New York (2 luglio 2020) con Joy in Purple (2019), grande tela dai colori decisi del blu, viola, marrone e rosa, che da stima $50 – 70 mila è volata fino a quota $668 mila. Nei lavori di Boafo ritroviamo i ritratti e le pennellate di Egon Schiele, artista a lui molto caro che conobbe a Vienna quando si trasferì dopo essersi laureato al Ghanatta College of Art and Design di Accra.
Nomi che lentamente stanno divenendo sempre più famigliari agli occhi dei collezionisti che, a sentire gli esperti, provengono da Asia, Europa, Nord America e una forte percentuale dall’Africa stessa; e se prima sostenevano solo artisti provenienti dalla propria regione ora i collezionisti africani guardano al continente intero come ha confermato Hannah O’Leary, responsabile della divisione Modern and Contemporary African Art di Sotheby’s Londra, “nella nostra ultima asta, abbiamo visto nigeriani che compravano arte sudafricana, sudafricani che compravano arte maliana, marocchini che compravano arte congolese e così via.[2]”
Da collezionismo di “nicchia”, l’arte africana contemporanea entra ufficialmente nelle dinamiche di mercato globali anche grazie all’attenzione di importanti musei e gallerie occidentali come il MoMa di New York o la Saatchi Gallery, e al successo di fiere come 1:54 Contemporary African Art Fair dedicate a questo settore che dall’anno scorso è arrivata a tre edizioni (New York, Londra e Marrakech). A fine 2017 è stato inoltre inaugurato lo Zeitz MOCAA – Museum of Contemporary Art Africa di Cape Town, un museo degno di una grande capitale europea che ha preso forma grazie alla collezione dell’ex Ad della Puma e che con i suoi centoventi mila metri quadri di superficie espositiva dà la possibilità di organizzare ben sedici mostre temporanee contemporaneamente.
Quello che abbiamo davanti è una fotografia piuttosto complessa di un paese che si è sviluppato a ritmi vertiginosi e che ha una profonda voglia di riscossa intellettuale e di affermazione della propria identità culturale. Il grande entusiasmo per la pittura black e per i suoi esponenti conferma il ruolo sempre più centrale e strategico dell’arte africana come uno dei segmenti più eclettici ed eccitanti del mercato globale che finalmente riceve nuovo ossigeno e nuovi colori.
[1] I valori riportati nell’intero articolo si intendono commissioni d’asta incluse. Fonte: Artprice.
[2] M. A. Marchesoni, L’arte africana è entrata nel mainstream, parola di O’Leary, IlSole24Ore (10 aprile 2020).