In principio era la Moka di Alfonso Bialetti. Alla fine fu la Cina di Pao-Cheng. Finisce così – o inizia, per gli imperterriti adoratori del liberismo – la storia di uno dei simboli per eccellenza del “fatto in Italia”. Alla chiusura delle operazioni di acquisto – prevista per giugno 2025 – lo storico marchio italiano passerà al fondo di investimento lussemburghese Nuo Capital, che pochi giorni prima di Pasqua ha sottoscritto due contratti per l’acquisizione del 78,567% del capitale della società che oggi ha sede a Coccaglio (Brescia), per poi procedere al reperimento delle restanti azioni e al delisting della società, che si era quotata in Borsa nel 2007, un anno dopo la nascita del progetto retail, con l’apertura di punti vendita monomarca, come quello di via Mercanti / piazza Duomo a Milano.
La proprietà di Nuo Capital è riconducibile alla famiglia di Hong Kong Pao-Cheng e agli Agnelli. La prima vi partecipa tramite The World-Wide Investment Company Limited (“WWICL”), il più antico family office di Hong Kong; i secondi tramite Exor.
Ma com’è che la leggenda ebbe inizio?
Storia della Moka, piccola grande rivoluzione in alluminio di Alfonso Bialetti
La piccola quanto geniale invenzione della Moka si deve a un antico metodo / strumento per il lavaggio dei panni, chiamato lisciveuse. Nelle parole che Renato Bialetti, figlio dell’inventore della Moka, rilasciò a La Stampa: «All’epoca non c’erano le lavatrici e le donne usavano un mastello con fondo bucato: sotto il mastello, in un altro contenitore, mettevano cenere e sapone, la “lisciva”, che a contatto con l’acqua “bolliva” facendo schiuma e salendo nella parte superiore, dove c’erano i panni. Era il principio di funzionamento della caffettiera».

Era il 1933, e nasceva la Mokha: all’inizio aveva anche una “acca”, di cui si perse traccia nel 1946. “Mokha” era il porto yemenita sul Mar Rosso da cui transitavano spezie e chicchi di caffè. Lo slogan di lancio del prodotto sapeva allo stesso tempo di intimità, confortevolezza, esclusività: “A casa, un espresso come al bar”. Il design, ultra moderno, sarebbe sopravvissuto nei decenni, pressoché invariato; seguiva una caratteristica forma ottagonale, scelta perché ottimizzava – con l’alluminio – la conducibilità del calore.

L’imprenditore e inventore Alfonso Bialetti (Casale Corte Cerro, 17 giugno 1888 – Omegna, 5 marzo 1970) aveva lavorato come operaio fonditore in Francia, per poi fare ritorno in Piemonte. Qui, seppe sfruttare le nuove potenzialità dell’alluminio – materiale che all’epoca era emblema di modernità e progresso – e nel 1919 diede vita alla sua impresa di semilavorati di alluminio a Crusinallo, sul Lago d’Orta. Le prime produzioni della caffetteria, dal 1933 in poi, erano artigianali. Nel dopoguerra, con la guida del figlio di Alfoso, Renato, l’azienda ampliò la produzione con metodi industriali, senza tradire spirito e qualità dell’invenzione iniziale. L’azienda è arrivata a vendere 300 milioni di pezzi.
Pare inoltre che, nel 1939, Anche Filippo Tommaso Marinetti ebbe modo di sorbire il caffè espresso della moka. Non lo apprezzò, preferendogli quello della tradizionale caffettiera napoletana. In barba al Futurismo.
Bialetti, proprio una pubblicità coi baffi
Dire “Bialetti” però significa accendere anche nella mente della memoria collettiva ricordi che – per anagrafica o mito – rimandano a pubblicità iconiche. A partire dal simpatico omino con i baffi che i nostri nonni e genitori avevano imparato a conoscere durante le emissioni di Carosello. Nato dalla matita di Paul Campani, l’Omino con i baffi fa il suo debutto sui media nel 1958, diventando il simbolo dell’azienda (lo è ancora oggi). Lo slogan dell’epoca, a lui legato, «Eh sì sì sì… sembra facile (fare un buon caffè)!» diventerà un tormentone.

Negli anni la caffettiera Moka Express è stata sempre un richiamo irresistibile per l’immaginario e la cultura pop, con vari omaggi e rivisitazioni. Si pensi alle più recenti: oltre a Dolce & Gabbana, quelle ispirate a serie tv di culto come Squid Game, Bridgerton. Chissà quali saranno i prossimi.


