Uno degli nft in asta a Milano, nella vendita Dystopian Visions di Cambi. Giusy Amoroso, Exoskeleton, The Origin, courtesy of the artist, Cambi
Milano, come sempre, ha scelto di percorrere la via dell’innovazione, dando visibilità al fenomeno del 2021 sia con esposizioni in galleria (Plan X Art Gallery, via Marsala) che con l’asta-evento Dystopian Visions di Cambi. La casa genovese ha infatti scelto la città meneghina come piazza di debutto per la sua prima vendita all’incanto di non fungible token, nella prima settimana di luglio 2021. La sede di via San Marco 22 “ha dato spazio sia a personalità emergenti che a pionieri come Fabiano Speziali, Mattia Pittini, Annibale Siconolfi”, ci racconta la curatrice dell’asta Serena Tabacchi, direttrice e co-fondatrice del MoCDA (Museum of Contemporary Digital Art). Si è trattato di “accompagnare questi artisti sulla scena della crypto arte. Il nostro intento non era quello di inserire sul mercato artisti alla Beeple , ma creatori meritevoli che fino a oggi non avevano avuto la necessaria visibilità all’interno di un percorso curatoriale in uno spazio fisico e virtuale, quale è stato quello di Cambi”.
Uno degli nft in asta a Milano, nella vendita Dystopian Visions di Cambi: Giuseppe Lo Schiavo, Robotica, courtesy of the artist, Cambi
La mostra pre asta degli nft si è tenuta sia fisicamente a Milano, che all’interno del metaverso (termine coniato da Neal Stephenson nel romanzo Snow Crash del 1992), lo spazio virtuale in cui vivono le opere digitali. “Abbiamo connesso anche a livello fisico persone già parte del sistema tradizionale dell’arte – come ad esempio Motta – con quello della crypto arte”. Il lancio della collezione in asta è avvenuto con la presentazione di due opere al giorno, in dialogo fra loro. “Anche se non in presenza di risultati stellari, tutti i prezzi di riserva sono stati superati. Ciò dimostra l’elevato grado di consapevolezza del collezionista nft nell’acquisto”.
Tutti gli artisti esposti erano italiani, alcuni dei quali debuttanti assoluti nel mondo nft. “Prevalentemente campani, o comunque del centro-sud”, rivela la curatrice. “Raccontano la contemporaneità in chiave futuristica. Con la tecnologia danno vita a nuovi mondi, in prospettive sia utopiche che distopiche”. Una delle critiche mosse al mercato della criptoarte è quello della sua concentrazione economica. Massimo Franceschet stima che ad oggi l’80 per cento del volume di vendita sulla piattaforma SuperRare (fra l’altro collaboratrice di Cambi per Dystopian Visions) è fatto dal 18 per cento degli artisti più importanti e dal 6 per cento dei collezionisti più abbienti. Il relativo indice di Gini (“0” disuguaglianza assente, “100” disuguaglianza massima) è elevatissimo: del 79 per cento per gli artisti e del 91 per cento per i collezionisti. Il motivo è che, a fine 2019, sono arrivate le “balene”, ovvero i collezionisti con una grande disponibilità economica.
Per un mercato nato informalmente e per pochi soldi nel 2018, si è trattato di uno scossone. Il collezionismo facoltoso fa incetta di opere nft, per poi rivenderle a quotazioni stellari. Pura speculazione, parrebbe. Ma il mondo racconta (anche) una storia diversa: per Cuy Sheffield di Visa, collezionista pure a livello personale di nft di artisti black, questa nuova forma di creatività rappresenta un potente mezzo di emancipazione per la comunità afroamericana.
A che cosa può essere paragonato ciò che sta avvenendo ora a ciò che è già avvenuto nel mondo dell’arte? A Duchamp? “A lui, a Lucio Fontana. La stessa fotografia inizialmente non veniva considerata arte”, risponde Bruno Pitzalis, coordinatore dell’asta nft Cambi. Prosegue: “Gli smart contract sono una vera rivoluzione nel campo artistico. Nel momento in cui avviene il mintaggio, ovvero il deposito dell’opera su blockchain, si supera il problema della richiesta delle percentuali alle gallerie. La procedura di accredito dei diritti d’autore all’artista è automatizzata, e avviene ad ogni passaggio di proprietà”. Sorge allora la domanda: perché gli nft si chiamano così e non semplicemente ‘opere su blockchain’? Risponde Serena Tabacchi: “In effetti si tratterebbe più di blockchain art che di arte crypto. Il termine non definisce il movimento e ha in sé qualcosa di nascosto, enigmatico, potenzialmente negativo. Questa è invece un’arte pubblica, democratica, aperta a tutti, scaricabile da tutti. Ad oggi tuttavia la maggior parte del pubblico la chiama crypto art”.
Uno degli nft in asta a Milano, nella vendita Dystopian Visions di Cambi: Annibale Siconolfi, Hollow, courtesy of the artist, Cambi
Serena Tabacchi prosegue con una nota tecnica: esistono diversi standard ai quali l’opera d’arte digitale può attenersi. Ma “a chiamarsi non fungible token è solo l’IRC721”, che è uno dei tanti standard, il più utilizzato. “È questo il codice che rende l’opera non fungibile, unica. Perché altrimenti anche gli asset digitali su blockchain potrebbero essere in tiratura multipla. Sulla blockchain – che funziona da archivio – non si mette l’opera, si mette un hash, ovvero una codifica che trascrive l’opera, l’autore, la data. Non si riversa il file in sé: sarebbe troppo pesante da gestire per la rete. Consumerebbe troppa energia. Esiste un tipo di blockchain che permette di farlo, si chiama ARweave. Però è più dispendiosa e lenta rispetto a blokchain ed ethereum, che contengono solo le transazioni, il tracciato di ciò che accade. È una buona forma di compromesso, in definitiva”.
Conclude Bruno Pitzalis: “In ogni caso si tratta di un avanzamento. Nel mondo tradizionale era molto difficile risalire a tutti i movimenti transattivi. La tecnologia Ethereum, su cui si basano gli smart contract, è ancora all’inizio. Bitcoin è molto più scalabile e veloce, del resto è nato per la finanza decentralizzata. Ethereum invece offre molte più funzioni rispetto a bitcoin: costa meno e ha più possibilità di sviluppo e adattamento”.