Volatilità elevata, guerre in corso, politica fiscale incerta e un dollaro ballerino: il rumore di fondo sui mercati non è mai stato così assordante. A guidarci in questo contesto complesso è Simone Ragazzi, portfolio manager di Algebris Investments, che ci aiuterà a distinguere i segnali significativi dalle distorsioni temporanee.
In un contesto in cui la volatilità resta elevata, ma alcuni indicatori macro sembrano suggerire una ripresa, quali sono i segnali da monitorare? Ci troviamo di fronte a una inversione ciclica o a un semplice rimbalzo tecnico guidato da fattori esogeni?
In un contesto in cui la volatilità resta elevata, emergono tuttavia segnali macroeconomici che lasciano intravedere una possibile ripresa. La fase recente più emblematica è stata quella del Liberation Day, quando l’annuncio di nuove tariffe ha provocato un’immediata reazione negativa da parte dei mercati, sia negli Stati Uniti sia in Europa. L’elemento chiave è stato l’incertezza: i dazi hanno introdotto un rischio esogeno difficilmente quantificabile, tanto che l’indice VIX ha toccato livelli storicamente elevati.
Con il progressivo aggiustamento delle misure tariffarie, è emersa una percezione più chiara e razionale del loro impatto. Molte aziende hanno dimostrato di poter assorbire gli effetti negativi attraverso modesti aumenti di prezzo, che al momento risultano ancora sostenibili per i consumatori. Questo ha ridimensionato le preoccupazioni iniziali, in particolare per le società europee esportatrici e per il potere d’acquisto dei consumatori americani.
Un ulteriore elemento di rassicurazione è arrivato con la pubblicazione delle trimestrali. Gli utili statunitensi del primo trimestre sono cresciuti del 12%, contribuendo a un rimbalzo degli indici fino ai livelli precedenti al Liberation Day e riportando il VIX su valori più contenuti. In Europa, la fotografia è stata meno brillante: un calo complessivo dell’8% degli utili, dovuto in larga parte al comparto energetico. Tuttavia, escludendo tale settore, anche il vecchio continente ha registrato una crescita del 2%. Le stime per il secondo trimestre si mantengono positive, alimentando un rinnovato ottimismo sui mercati.
Detto ciò, il 2025 rimane un anno complesso, attraversato da fattori geopolitici e macroeconomici di grande incertezza: due conflitti ancora aperti, una politica commerciale statunitense imprevedibile, interrogativi sulla sostenibilità fiscale americana. Il tema chiave non è tanto la crescita — che, dati alla mano, si sta materializzando — quanto il livello di fiducia nei confronti dell’amministrazione Trump e, più in generale, della traiettoria politica e regolatoria degli Stati Uniti.
In questo scenario, la nostra visione resta improntata alla prudenza attiva: selettività e qualità diventano imprescindibili. Puntiamo su aziende ben gestite, con modelli di business resilienti e una solida capacità di generare cassa, in grado di attraversare con successo anche i contesti più turbolenti.
Alla luce delle recenti misure statunitensi, quali impatti aspettarsi sui margini delle aziende europee esportatrici e, specularmente, sulla dinamica dei prezzi al consumo negli Stati Uniti?
Gli effetti delle recenti misure tariffarie statunitensi dipenderanno in larga misura dalla loro entità e dalla selettività con cui verranno implementate. Al momento, per molte società europee quotate, l’impatto appare contenuto e gestibile. Le aziende stanno infatti adottando strategie di mitigazione attraverso due leve principali: da un lato, l’applicazione di modesti aumenti di prezzo; dall’altro, una progressiva riorganizzazione della supply chain, privilegiando fornitori localizzati in Paesi meno colpiti dalle nuove tariffe. Questa flessibilità consente di ridurre il carico tariffario sui beni finali e salvaguardare i margini operativi.
Per quanto riguarda il consumatore statunitense, l’effetto dipenderà dalla trasmissione dei costi lungo la filiera. Se i rincari rimangono contenuti, il sistema nel suo complesso – distribuzione e consumatori finali – dovrebbe essere in grado di assorbirli senza impatti significativi. Tuttavia, qualora i dazi venissero ulteriormente estesi o aumentati, generando incrementi più marcati dei prezzi sui beni di largo consumo, si potrebbero creare pressioni reali sul potere d’acquisto e sulla domanda interna.
In sintesi, lo scenario attuale suggerisce una vulnerabilità gestibile, ma resta cruciale monitorare con attenzione l’evoluzione della politica commerciale statunitense, che potrebbe rapidamente alterare gli equilibri.
Negli ultimi mesi si è parlato tanto della fine dell’eccezionalismo statunitense e della nuova centralità europea. Quanto di questa dialettica è vero? L’attuale sconto delle valutazioni europee è giustificato dai fondamentali?
Negli ultimi mesi si è molto discusso della presunta fine dell’eccezionalismo statunitense e di una rinnovata centralità europea. In parte, questa dialettica riflette una realtà in evoluzione, ma è importante distinguere i segnali strutturali dalle narrative speculative.
Nel 2025, l’incertezza legata al quadro politico americano — e in particolare al suo potenziale impatto sulla politica fiscale e sui rendimenti dei Treasury — ha aumentato il premio al rischio richiesto dagli investitori. Questo, a sua volta, potrebbe portare a una compressione dei multipli di valutazione negli Stati Uniti. In un simile contesto, è plausibile aspettarsi un progressivo riorientamento dei flussi di capitale verso aree percepite come relativamente più stabili o sottovalutate, come l’Europa.
L’Europa, infatti, si presenta ancora oggi come un mercato “value”, con multipli decisamente più contenuti rispetto agli Stati Uniti. Questo sconto è stato storicamente giustificato da una crescita più anemica e da una minore innovazione sistemica. Tuttavia, stiamo assistendo a una convergenza di fattori potenzialmente favorevoli per il Vecchio Continente: una maggiore propensione alla crescita dopo anni di stagnazione, flussi in entrata dagli Stati Uniti, e la possibilità che politiche fiscali espansive — come il cosiddetto bazooka tedesco — possano finalmente imprimere un’accelerazione concreta all’economia reale, soprattutto nel comparto infrastrutturale.
Anche la possibile fine del conflitto russo-ucraino rappresenta un catalizzatore rilevante: una normalizzazione geopolitica potrebbe restituire slancio agli utili aziendali europei e contribuire a una revisione al rialzo delle valutazioni.
Ciò premesso, il divario tra le due sponde dell’Atlantico resta legato a fondamentali: gli Stati Uniti, nel primo trimestre, hanno confermato tassi di crescita sostenuti, il che giustifica in parte la presenza di multipli più elevati. Il vero tema non è quindi la differenza assoluta delle valutazioni, ma la loro congruità rispetto alle prospettive. In questo senso, la domanda da porsi è: il prezzo che oggi il mercato riconosce a certi titoli è giustificato dalla qualità e dalla sostenibilità del loro profilo di crescita?
Infine, più che adottare un approccio puramente geografico, riteniamo sia fondamentale ragionare in termini settoriali e di singole storie di investimento. Le opportunità migliori oggi si trovano laddove convergono visibilità sugli utili, leadership competitiva e valutazioni ancora ragionevoli — indipendentemente dal Paese di origine.
Negli ultimi mesi il dollaro si è rafforzato, per poi indebolirsi arrivando ai minimi. Quanto pesa oggi il rischio cambio nelle scelte allocative, soprattutto in un contesto in cui la diversificazione valutaria può amplificare o attenuare le performance complessive del portafoglio?
Il tema del cambio valutario è oggi centrale nelle scelte allocative. Negli ultimi mesi, il dollaro ha vissuto una fase altalenante, con un rafforzamento iniziale seguito da una significativa debolezza, portandosi verso quota 1,15 contro euro. L’amministrazione Trump sembra intenzionata a favorire una svalutazione competitiva, coerente con quanto già accaduto durante il suo precedente mandato, quando il biglietto verde era sceso anche oltre 1,20. In questo contesto, esiste spazio per un’ulteriore svalutazione, ed è cruciale comprendere la direzionalità del Forex nel medio termine.
Per le imprese europee, un dollaro debole rappresenta una sfida in termini di ricavi se non si dispone di una base produttiva localizzata negli Stati Uniti. Al contrario, le società americane beneficiano di una valuta più debole grazie al vantaggio competitivo che ne deriva in termini di export e utili netti.
Dal punto di vista dell’investitore, il peso del rischio cambio dipende dall’esposizione geografica delle aziende in portafoglio. È fondamentale valutare se una società sia naturally hedged: ovvero, se presenti sia ricavi che costi nella stessa valuta (ad esempio, in dollari). In assenza di questa simmetria, il rischio cambio può avere un impatto significativo sulla marginalità e sulla generazione di cassa. Al contrario, una struttura bilanciata riduce l’esposizione netta al Forex e rende il business più resiliente.
Detto ciò, è importante mantenere una prospettiva di lungo termine: storicamente, il cambio si è dimostrato una wild card, capace tanto di amplificare quanto di attenuare le performance, ma raramente determinante in modo strutturale. Per questo motivo, nella costruzione di un portafoglio ben diversificato, il Forex è una variabile da monitorare con attenzione, ma che non deve oscurare l’analisi dei fondamentali aziendali.
Articolo tratto dal numero di Giugno 2025 del magazine We Wealth. Abbonati qui.
Domande frequenti su Mercati nel caos? Ecco i segnali che contano davvero
L'articolo identifica la volatilità elevata, le guerre in corso, l'incertezza della politica fiscale e la fluttuazione del dollaro come i principali fattori che contribuiscono all'elevato 'rumore di fondo' sui mercati.
È fondamentale distinguere i segnali significativi dalle distorsioni temporanee per navigare efficacemente nel contesto di mercato attuale, caratterizzato da volatilità elevata e possibili segnali di ripresa.
Le recenti misure statunitensi potrebbero avere un impatto sui margini delle aziende europee esportatrici, influenzando potenzialmente la loro competitività e redditività.
Il rischio cambio è un fattore importante nelle decisioni di allocazione degli investimenti, soprattutto in un contesto in cui la diversificazione valutaria può influenzare significativamente le performance complessive del portafoglio.
L'articolo solleva la questione della fine dell'eccezionalismo statunitense e della crescente centralità europea, chiedendosi quanto di questa dialettica sia vera e se l'attuale sconto delle valutazioni europee sia giustificato dai fondamentali.