Il caso esaminato
Nello specifico, l’operazione accertata dall’Agenzia delle entrate può essere sinteticamente descritta come segue. Nel giugno del 2012, il socio di maggioranza di una società rivalutava la propria partecipazione avvalendosi della possibilità offerta dagli artt. 5 e 7 della legge n. 448 del 2001 e successive modifiche e integrazioni. Nel novembre del medesimo anno, l’assemblea dei soci della società deliberava un acquisto di azioni proprie, che la società eseguiva acquistando azioni del socio di maggioranza, il quale, in tal modo, monetizzava (parte de) la propria partecipazione senza il pagamento di imposte ulteriori rispetto all’imposta sostitutiva dovuta per la rivalutazione.
Secondo l’Agenzia, l’operazione realizzava quindi un «leverage cash out» privo di valide ragioni economiche e quindi illegittimo per abuso del diritto ex articolo 10-bis della Legge n. 212 del 2000 (Statuto del Contribuente).
Avverso la tesi dell’Agenzia, la Commissione tributaria provinciale (Ctp) prima e la Commissione tributaria regionale (Ctr) poi accoglievano la tesi del contribuente, rilevando che «seppure i negozi posti in essere hanno conseguito anche un risparmio di imposta, né indebito né illecito, parte ricorrente ha anche adeguatamente esposto le ragioni economiche che hanno determinato la scelta di procedere alla parziale cessione di azioni proprie in alternativa ad altre misure, quali la distribuzione di dividendi o il recesso del socio, che non avrebbero avuto alcun maggiore vantaggio né per il socio né per la società, ma solo un maggior onere tributario. In particolare, la strada della distribuzione dei dividendi non sarebbe stata economicamente preferibile, in quanto avrebbe comportato un esborso sensibilmente più rilevante, dovendosi corrispondere i dividendi stessi necessariamente a tutti i soci, con un pregiudizio per la struttura finanziaria della società in ragione della contrazione della liquidità disponibile».
Il «leverage cash out» e la sua valutazione di liceità nel corso del tempo
Per comprendere appieno la portata della pronuncia in commento, giova innanzitutto tornare sullo schema del «leverage cash out».
Per «leverage cash out» si intende quell’operazione in cui il socio di controllo utilizza la leva finanziaria per attuare una monetizzazione («cash out», appunto) del capitale economico della società-target, che viene così gravata patrimonialmente di un debito estraneo alla sua gestione caratteristica ma funzionale alle vicende traslative della partecipazione sociale o comunque alla monetizzazione della partecipazione.
Le operazioni di «leverage cash out» sono quindi finalizzate a far emergere il valore del capitale economico della società e a distribuire al socio di controllo parte della liquidità che la società medesima ha, in virtù della sua capacità di produrre reddito.
Dal punto di vista pratico, normalmente, l’operazione in commento viene attuata come segue:
- il socio di controllo di una società-target vende la propria partecipazione ad un’altra società, dallo stesso socio interamente posseduta ovvero da questi appositamente costituita per lo scopo;
- quest’ultima società si indebita, al fine di pagare al venditore il prezzo della compravendita, e, una volta completata l’operazione, si fonde con la società acquisita, così da traslare sul patrimonio della stessa il debito contratto per l’acquisizione.
La medesima operazione può essere inoltre realizzata con delle varianti (ad esempio, utilizzando due newco o, come nel caso di giurisprudenza sopra analizzato, mediante l’acquisto di azioni proprie da parte della stessa società target), che tuttavia non ne alterano le caratteristiche fondamentali e le finalità.
Ora, sulla natura elusiva, o meno, del «leverage cash out», dopo un’iniziale diffidenza seguita da anni di vivace dibattito, la dottrina e la giurisprudenza sembrano essere approdate su un orientamento interpretativo che riconosce la legittimità di dette operazioni, laddove supportate da «valide ragioni extrafiscali non marginali».
Questo è anche il caso della sentenza in commento, dove le «valide ragioni extrafiscali non marginali» sono per l’appunto individuate nell’interesse, del socio di controllo e della società, a preferire l’acquisto di azioni proprie (cedute dal medesimo socio) al recesso, eventualmente parziale, dello stesso o alla distribuzione di dividendi, alla luce del maggior impatto in termini di flussi monetari e di onere fiscale che le due operazioni alternative avrebbero comportato rispetto a quella realizzata.
L’acquisto di azioni proprie da parte della società, in particolare, integra una forma di rimborso del capitale al socio cedente ed è quindi equiparabile, sotto il profilo degli effetti, ad un recesso (totale o parziale) dello stesso socio. La stessa equiparazione, tuttavia, non si rinviene altresì sotto il profilo del trattamento tributario delle due fattispecie considerate. Come noto, infatti, le somme ricevute dai soci in caso di recesso costituiscono utile (reddito di capitale) per la parte che eccede il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione delle azioni o quote annullate, con conseguente applicazione della ritenuta alla fonte del 26 per cento su tale eccedenza; viceversa, in caso di acquisto di azioni proprie, la plusvalenza eventualmente realizzata dal socio cedente produce un reddito (diverso) da assoggettare ad imposta sostitutiva pari al 26 per cento. È evidente, pertanto, che, nel caso esaminato, la rivalutazione delle azioni detenute dal socio di maggioranza abbia comportato una sterilizzazione della plusvalenza realizzabile in sede di cessione, limitando il carico fiscale all’imposta sostitutiva prevista per la rivalutazione stessa.
Stante il diverso inquadramento dei redditi configurabili, il profilo di interesse della pronuncia in commento consiste nella statuizione di liceità, operata dalla Ctr, delle scelte imprenditoriali volte a preferire, tra due operazioni economicamente equivalenti ma con diversa rilevanza fiscale, quella produttiva di reddito diverso in luogo del reddito di capitale, in ragione della minore onerosità fiscale della soluzione prescelta, escludendo che sia configurabile un abuso del diritto ex articolo 10-bis laddove l’operazione sia supportata anche da valide ragioni extrafiscali.
Conclusioni
In chiusura, vale osservare come la pronuncia in commento consenta anche di estendere la riflessione alla persistenza, nel nostro ordinamento tributario, della distinzione tra redditi di capitale e redditi diversi di natura finanziaria, pur in presenza di fattispecie economiche assolutamente sovrapponibili. La distinzione in parola comporta, essenzialmente, (i) la compensabilità delle minusvalenze con le plusvalenze per i redditi diversi di natura finanziaria e (ii) l’impossibilità, viceversa, di dedurre i costi afferenti alla produzione del reddito, in sede di tassazione dei redditi di capitale.
Tale differenza di trattamento fiscale di redditi finanziari sostanzialmente equivalenti costituisce, peraltro, una questione di estrema attualità, alla luce della imminente riforma Irpef prospettata dal Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi. Come anche suggerito da autorevole dottrina, infatti, detta riforma potrebbe costituire la sede opportuna per valutare un ripensamento della fattispecie dei redditi (di capitale e diversi) di natura finanziaria, nel senso di una loro concezione unitaria, come del resto avviene in numerosi Paesi europei, al cui sistema fiscale l’Italia sta guardando anche per la valutazione di altri profili di interesse.