Costituisce titolo per partecipare all’ impresa la prestazione continuativa dell’attività di lavoro nella famiglia che sia correlata all’accrescimento della produttività dell’impresa
Ai fini dell’applicabilità del regime fiscale dell’impresa familiare è richiesto, tra l’altro, che il lavoro prestato dal collaboratore all’interno dell’impresa familiare sia prevalente
Nell’impresa familiare l’apporto del collaboratore non può essere potenziale
È contestabile la sussistenza “in concreto” di una collaborazione effettiva, continuativa e prevalente, dei familiari all’impresa familiare, se la prova di questa collaborazione è basata soltanto su meri dati indizianti, quali l’iscrizione all’università.
Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto non sufficiente la prova dell’iscrizione all’università dei figli del contribuente, unitamente alla residenza anagrafica nella città ove l’università è situata, per dimostrare a partire da questo dato la partecipazione di questi all’attività dell’impresa familiare (trattasi di una farmacia).
Non è condivisibile, ad avviso dei giudici della Suprema Corte, l’interpretazione offerta dal contribuente secondo cui l’attività di collaborazione alla gestione della farmacia da parte dei figli si potrebbe evincere anche a partire dal fatto che essi erano studenti universitari della facoltà di farmacia.
La Corte di Cassazione, infatti, ha tenuto a precisare che in tema di imposte sui redditi, ai fini dell’applicabilità del regime fiscale dell’impresa familiare è richiesto, tra l’altro, che il lavoro prestato dal collaboratore all’interno dell’impresa familiare sia prevalente rispetto alle altre attività eventualmente svolte.
Per integrare i requisiti che determinano la disciplina fiscale dell’impresa familiare, infatti, si richiede espressamente la prevalenza del lavoro del collaboratore all’interno dell’impresa familiare rispetto ad altre attività eventualmente esercitate.
La prevalenza non va confusa con la continuità
L’apporto del collaboratore, osserva la Corte, deve essere valutato in concreto e la prevalenza dell’attività svolta dal familiare non deve essere “confusa” con la continuità e non è in quest’ultima implicito.
La continuità dell’apporto richiesto dall’art. 230 bis c.c. per la configurabilità della partecipazione all’impresa familiare non esige la continuità della presenza in azienda, richiedendo invece soltanto la continuità dell’apporto.
La configurabilità di un apporto continuo del collaboratore, che prescinda dalla presenza continuativa dello stesso nei luoghi in cui l’attività dell’azienda viene esercitata presuppone l’accertamento della forma nella quale viene concretamente prestata la collaborazione e della sua compatibilità con la natura e l’organizzazione dell’attività oggetto dell’impresa.
In questi termini ad avviso della Corte, la mera attività di studio non costituisce di per sé sola un contributo effettivo all’azienda.
Ad avviso della Corte:
- va valutata in concreto la sussistenza dell’effettivo apporto dei figli alla produttività dell’azienda nell’anno d’imposta in questione
- va valutata in concreto la prevalenza dell’apporto rispetto ad altre attività svolte dai collaboratori (ed in particolare con l’attività di studio universitario in corso)
- va verificata in concreto la continuità, nonché le specifiche modalità dell’ eventuale apporto, anche con riferimento alla compatibilità di queste ultime con la distanza della sede dell’azienda dalla residenza dei familiari.
La disciplina fiscale nell’impresa familiare
A partire dal presupposto secondo cui costituisce titolo per partecipare all’impresa la prestazione continuativa dell’attività di lavoro nella famiglia che sia correlata all’accrescimento della produttività dell’impresa, occorre rammentare che, ai sensi dell’art. 5, comma 4 e 5, DPR n. 917 del 1986:
- i redditi delle imprese familiari di cui all’articolo 230 bis del codice civile, limitatamente al 49 per cento dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.
Questa disciplina si applica a condizione:
- che i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti;
- che la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo d’imposta;
- che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di avere prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.
Si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado.
Ai sensi dell’art. 230 bis c.c. il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare:
- ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia
- partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi
- partecipa agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la responsabilità genitoriale su di essi.
(Cass. n. 34699/2022)