Il decreto capitali del governo Meloni si ripromette l’obiettivo ambizioso di irrobustire il mercato dei capitali per rafforzare l’economia italiana. L’obiettivo è meritorio, politicamente ed economicamente. In tale ottica, a discendere, è parimenti meritorio perseguire tale obiettivo per raggiungere l’ulteriore fine di irrobustire il tessuto industriale italiano.
La contraddizione del decreto capitali
Ma, data per scontata la condivisione astratta, non può non sorgere una perplessità, perché il decreto capitali nasconde – in maniera intrinsecamente censurabile da un punto di vista strettamente giuridico, come si vedrà – una contraddizione profonda. L’interesse della società non è di per sé armonico rispetto a quello dei soci, in quanto questi hanno sì interessi sociali ma possono avere anche interessi antisociali o comunque a-sociali.
Gli interessi antisociali
La regola della scelta rimessa alla maggioranza scatta solo all’interno degli interessi sociali. Gli interessi antisociali sono banditi necessariamente in quanto di per sé – anche solo – potenzialmente dannosi: né si può replicare che l’illiceità è una cosa e il danno un’altra – con la prima che potrebbe sussistere anche in assenza del secondo, rivelandosi così inoffensiva -, in quanto il contrasto con l’interesse sociale blocca il perseguimento di questi: il (vero è che il) danno è “in ipsa”.
Gli interessi sociali
Né si obiettare ulteriormente che i soci hanno non l’obbligo di perseguire l’interesse sociale, obbligo questi in capo solo agli amministratori di per sé, ma esclusivamente il divieto di perseguirne uno anti-sociale. Di qui la non automaticità del danno in quest’ultimo caso. È da replicare che i soci hanno il divieto di intervenire in materia gestionale, di spettanza esclusiva degli amministratori, a pena de (rectius”, sotto) la responsabilità di questi. Pertanto, l’automaticità del danno non può essere elusa.
Gli interessi a-sociali
Sugli interessi a-sociali, il discorso è più complesso, ma alla fine è una problematica di lana caprina, in quanto è di mera scuola un interesse a-sociale che non limiti il perseguimento dell’interesse sociale stesso.
Interesse comune dei soci e interesse dell’impresa
Il discorso non cambia se si ritiene che l’interesse comune dei soci di natura sociale debba cedere di fronte all’interesse dell’impresa, in quanto la tutela di tale interesse dell’impresa in sé, distinto da quello dei soci (“Unternehmen an sic”, secondo la teoria istituzionalistica di matrice tedesca, distinta da quella contrattualista appena sopra vista) è ancora più rigorosa nella limitazione del potere della maggioranza, perché rende imperativo e inderogabile l’obbligo di esercitare l’interesse sociale, inibendo qualsiasi interesse dei soci distinto da quello sociale.
Il sacrificio dell’interesse comune dei soci e quindi della maggioranza è ammesso solo se esso interesse comune lede la forza e la solidità dell’impresa e quindi alla lunga lo stesso interesse dei soci.
Nella teoria istituzionalistica, ove rettamente intesa, l’interesse sociale non è superiore a quello dei soci ma coincide con esso, semplicemente in una logica a lungo termine, e non a breve o anche a medio. Ove non rettamente intesa, tutela la maggioranza nel perseguimento degli interessi antisociali e a-sociali, contrabbandandoli quali interessi sociali.
Per inciso, la teoria istituzionalistica, ove rettamente intesa vale a dire nei termini sopra visti – e solo in tali termini – attiene alla tutela dell’iniziativa economica privata – art.41, 1° comma, Cost. – e non a quello dei limiti sociali a essa – art. 41, 2° comma, c.c. – che tollerano limiti al perseguimento dell’interesse sociale, con il che si è radicalmente al di fuori della problematica a questi relativa.
Pertanto, è evidente che l’impostazione del decreto capitali, che pretende di perseguire il rafforzamento del mercato dei capitali unitamente al rafforzamento del tessuto industriale corre il rischio, se non si risolve il nodo sopra visto, di ledere l’interesse sociale dell’impresa medio-grande e grande e così l’iniziativa economica privata e anche il risparmio – questi art. 47 Cost.
I due aspetti su cui interviene il decreto capitali
Nell’entrare nel concreto, al fine di risolvere il lancinante dubbio che si presenta “prima facie”, con il decreto capitali, anche in virtù degli emendamenti, si punta su due aspetti principali.
1 – Il voto maggiorato/multiplo
Il primo è relativo al voto maggiorato/multiplo che si vuole istituzionalizzare anche per le società quotate, consentendolo fino a 10 volte per azioni contro l’attuale previsione di due volte per azione per il voto maggiorato (concesso a un determinato portatore di azioni) e di tre volte per azione per il voto multiplo (concesso a una determinata categoria di azioni e solo se lo statuto le prevedeva prima della quotazione), il che rafforza la maggioranza relativa e impedisce la contendibilità, rendendo i piccoli azionisti prigionieri e non in grado di poter beneficiare, in caso di cambiamento del gruppo di controllo, della partecipazione al premio di maggioranza.
Ora, con l’ultima modifica del decreto capitali si arriva alla maggiorazione fino a 10 volte per azione.
Invece, le eccezioni alla parità di voto devono essere circoscritte al minimo, in quanto senza tale parità la maggioranza relativa assurge al livello di maggioranza assoluta violando l’iniziativa economica privata di chi punta alla maggioranza assoluta solo, correttamente, coinvolgendo gli altri soci di minoranza.
L’interesse dei soci così tutelato non è quello comune e, conseguentemente, si lede la stessa robustezza dell’impresa sociale.
Si eccepisce che in altri Paesi, a partire dall’Olanda, la parità del voto è oramai, se non definitivamente abbandonata, comunque sulla via dell’abbandono, al che è da ribattere che non si può cedere sul piano della tutela dell’iniziativa economica privata, a pena di entrare in un capitalismo profondamente alterato. Occorre evitare che ogni dibattito sul rapporto tra ordinamento interno e ordinamenti di altri Paese occidentali presupponga una valutazione della globalizzazione “da curva nord contro sud”. Ogni azione conforme ai canoni occidentali è salutare e da accogliere con favore, a condizione che non si alteri l’essenza del nostro ordinamento. L’attrazione nei confronti dei capitali esteri e il miglioramento dell’efficienza del mercato dei capitali devono essere perseguiti in ben altro modo: la loro salvaguardai a detrimento dell’efficienza del sistema industriale, anche nella struttura societaria, è meramente illusorio.
2 – L’introduzione di forti limiti alle liste degli amministratori
Il secondo aspetto su cui interviene il decreto capitali è costituito dall’introduzione di forti limiti – diminuiti pesantemente rispetto a precedenti surreali versioni, ma ancora profondamente incisivi – alle liste degli amministratori, in modo da ostacolare la concreta formazione di alternative alla maggioranza relativa. Ebbene, la critica alla lista degli amministratori è profondamente e intrinsecamente erronea, in quanto si basa su un travisamento totale dei principi fondamentali della normativa societaria, che non si possono assolutamente violare, ed è ulteriormente grave che il tentativo di violazione sia abbozzato in modo sbrigativo e frettoloso e senza alcuna profonda meditazione.
La gestione sociale spetta inderogabilmente e imperativamente agli amministrator (“rectius”, al consiglio di amministrazione, che generalmente nomina un amministratore delegato, investito della gestione, con penetranti limiti e controlli): in tale ottica, è ben comprensibile e anzi altamente apprezzabile che gli amministratori uscenti avanzino la loro candidatura, suffragandola con i loro risultati passati. Così la maggioranza relativa è posta nelle condizioni di criticare la gestione passata e di presentare programmi più appetibili, da affidare in caso di nomina alla propria lista, sfidando gli amministratori sul concreto, in modo da indurli ad avanzare modifiche ai loro programmai, per renderli ancora più appetibili.
La lista degli amministratori è funzionale alla tutela dell’interesse sociale, in quanto canalizza i voti delle minoranze sulle varie liste in funzione della gestione sociale e non di fideistici apprezzamenti. L’ostacolo della formazione di alternative a tutela della maggioranza relativa, indirizzato “ad personam” nei confronti degli amministratori, alla fine rende la prima in grado di porre le basi per condizionare i secondi, i quali non potranno mai porsi in contrasto con essa, a pena di pregiudicare il loro futuro nella società di appartenenza: l’obbiettivo ulteriore e finale è quello di intervenire nella gestione sociale senza limiti, il che è illecito. Il punto comune dei due interventi del decreto capitali è rappresentato dalla salvaguardia della maggioranza relativa, in modo incondizionato, a sfavore sia dei soci di minoranza e della contendibilità sia di un corretto assetto strutturale della società.
Conclusioni
Di fatto, si rende la maggioranza relativa intangibile: ma non solo, in quanto la si pone al riparo di ogni controllo e limite. La società per azioni perde ogni separazione dai soci di controllo: essa evapora in modo da ridursi ad azienda di famiglia.
Il giudizio finale non può che essere impietoso: il decreto capitali, nell’attuale impostazione, corre il rischio di ledere l’interesse sociale e di essere anti-costituzionale per violazione dell’art. 41, 1° comma, e dell’art. 47 della Costituzione.