L’art. 178 del codice civile disciplina le sorti dei beni destinati all’esercizio dell’impresa qualora tra i coniugi sussista il regime patrimoniale di comunione legale (non avendo, gli stessi, optato per il regime di separazione dei beni ovvero per una comunione convenzionale). In particolare, viene stabilito che “i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”.
Nella sostanza, tali beni rientrano nella cosiddetta comunione “residuale”, che si instaura su particolari classi di beni appartenenti, in costanza di matrimonio, al solo coniuge che ne è titolare, ma destinati a entrare nel patrimonio comune e a essere divisi in parti uguali tra entrambi i coniugi al momento di scioglimento della comunione legale (es., in caso di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, separazione personale, etc.) se e nella misura in cui essi esistano ancora a tale data.
Gli obiettivi ben chiari della norma in questione (da un lato, garantire l’uguaglianza economica dei coniugi legata alle vicissitudini successive al matrimonio e, dall’altro, consentire al coniuge imprenditore di gestire autonomamente la propria attività) non trovano però altrettanta limpidezza nel dettato normativo, restando in dubbio se si instauri una contitolarità reale dei coniugi sui singoli beni, ovvero se sorga un diritto di credito del coniuge non imprenditore da far valere, nei confronti dell’altro, in sede di divisione.
Il contrasto è stato risolto dalle Sezioni unite dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 15889 del 17 maggio 2022, che ha accolto la tesi della natura creditizia del diritto del coniuge non imprenditore. In particolare, la Suprema Corte ha stabilito che nel caso di impresa riconducibile a uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio – e ricadente nella comunione “residuale” al momento dello scioglimento della comunione legale – all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari alla metà del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data.
La ragione principale dell’orientamento dei giudici di legittimità in favore della tesi della natura creditizia risiede essenzialmente nel fatto che quest’ultima consente di contemperare la legittima aspettativa vantata dal coniuge non imprenditore sui beni aziendali con la tutela dell’impresa e dei relativi creditori.
Quanto al profilo della tutela dell’impresa, viene infatti rilevato che una eventuale contitolarità reale dei coniugi sui beni aziendali ricadenti in comunione residuale potrebbe complicare la relativa gestione (dovendo essere effettuata di comune accordo tra gli stessi) e, in casi estremi, paralizzarla (stante la conflittualità che permea la maggior parte delle ipotesi comportanti la cessazione del regime patrimoniale della comunione legale) o compromettere la sopravvivenza dell’impresa stessa (si pensi per esempio al caso in cui il complesso aziendale non risulti comodamente divisibile e il coniuge non imprenditore ne chieda l’attribuzione, ovvero all’ipotesi di vendita a terzi dei beni di impresa in assenza di specifiche richieste di attribuzione degli stessi da parte dei coniugi).
Quanto alla tutela dei creditori del coniuge imprenditore, viene evidenziato che l’insorgenza di una contitolarità reale dei coniugi sui beni aziendali ricadenti nella comunione residuale porterebbe a una lesione della relativa garanzia patrimoniale, poiché tali beni non apparterrebbero più per l’intero all’imprenditore, bensì in comunione con l’altro coniuge.
Alla luce di quanto sopra, nel caso di impresa riconducibile a uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, al momento dello scioglimento della comunione legale il coniuge non imprenditore potrà vantare nei confronti del consorte imprenditore un mero diritto di credito pari alla metà del valore dell’azienda, senza poter accampare alcun diritto reale sui singoli asset specifici costituenti beni di impresa.