Il diritto di recesso dalle società di capitali rappresenta forse uno degli istituti più interessanti del diritto societario. Si tratta, nella stretta accezione normativa, dello strumento che tutela il socio di minoranza, non consenziente alle modifiche sostanziali del profilo organizzativo o gestorio della società deliberate dalla maggioranza, attribuendogli il diritto di sottrarsi al vincolo societario disinvestendo la propria partecipazione tramite la valorizzazione della quota di attivo societario a lui riveniente.
Rappresenta anche una sorta di monito per il socio di maggioranza, che sa che imporre modifiche alle regole del gioco a maggioranza espone la società e se stesso a un possibile gravoso impegno finanziario di liquidazione della quota del socio dissenziente.
La legge (si vedano articoli 2437 e 2473 del Codice Civile, rispettivamente per le S.p.A. e per le S.r.l.) prevede le ipotesi per il recesso del socio di minoranza: si tratta delle cosiddette cause legali di recesso. Si pensi a quelle delibere che comportino una modifica sostanziale dell’oggetto sociale ovvero alle situazioni in cui si verifichi l’avvicendamento del soggetto che esercita attività di direzione e coordinamento sulla società.
La nuova concezione del fenomeno societario ha ormai rotto il tabù dell’indissolubilità del vincolo sociale: è, infatti, lasciata all’autonomia dei soci la possibilità di individuare ulteriori ipotesi di recesso. Lo statuto sociale potrà prevedere come ipotesi di recesso qualsiasi atto o fatto, anche esterno alla società, in grado di incidere sulla stessa. Si può inserire nello statuto di una società di capitali addirittura un diritto di recesso legato al semplice volere del socio (recesso “ad nutum”). Infine, è possibile prevedere un diritto di recesso subordinato al verificarsi di una «giusta causa», da indentificarsi come un evento che mina alla radice la stabilità della compagine societaria.
Nell’elaborare un concetto statutario di giusta causa di interruzione del vincolo sociale, ci si può riferire, ad esempio, a comportamenti riconducibili alla violazione di obblighi contrattuali (obblighi di non concorrenza da parte di uno dei soci), di diligenza e correttezza, incidenti sulla natura fiduciaria del rapporto societario. Al di là delle motivazioni per cui viene esercitato, la finalità del recesso è primariamente quella di consentire e regolare il diritto del socio recedente a ottenere il rimborso del valore della propria partecipazione secondo un’equa valorizzazione. Al socio receduto spetta infatti per legge un valore corrispondente al valore reale (di mercato) della propria partecipazione al momento della dichiarazione di recesso.
È la legge stessa a fornire gli elementi per determinare il fair market value. Tuttavia, è possibile pattuire, per le ipotesi di recesso convenzionali, dei particolari criteri di liquidazione volti a determinare il valore della partecipazione per il socio recedente che vanno esplicitati nello statuto sociale, anche in totale deroga rispetto ai criteri di liquidazione fissati dalla legge.
In base alla disciplina legale, è possibile realizzare la liquidazione della partecipazione del socio recedente tramite l’acquisto da parte degli altri soci proporzionalmente alle quote o azioni possedute, oppure da parte di un terzo individuato o utilizzando riserve disponibili o riducendo il capitale.
Fiscalmente, la cessione della quota e la sua liquidazione a causa di recesso non hanno lo stesso trattamento. È opportuno sottolineare che il regime fiscale opzionale della rivalutazione delle partecipazioni non trova applicazione nel recesso tipico, quando l’acquisto della partecipazione è avvenuto da parte della stessa società. Ciononostante, il recesso è un’opzione interessante perché consente al socio desideroso di liquidare la propria partecipazione, di smobilizzare il proprio investimento anche in assenza di altro investitore disposto a rilevarla, con un impatto fiscale equivalente alla distribuzione di un dividendo.